Catania

La “cabina di comando” del clan|Parla il pentito Cavallaro

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01 Luglio 2020, 05:52

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CATANIA – Parla in un dialetto strettissimo Luciano Cavallaro. Il collaboratore di giustizia è uno dei testi chiave del processo, rito ordinario, scaturito dal blitz Gisella che ha disarticolato il clan Nicotra di Misterbianco, alleato con la famiglia mafiosa di Cosa nostra Mazzei. Un’udienza fiume quella che si è svolta all’aula bunker 3 di Bicocca davanti al Tribunale di Catania, presieduto dal giudice Paolo Corda. Un racconto che abbraccia quasi trent’anni di storia della mafia catanese. “Ho fatto parte della famiglia Nicotra (i Tuppi) dal 1989 – dopo l’uccisone di mio fratello – fino al 2015”, risponde così alla prima domanda del pm Marco Bisogni. La scelta di voltare le spalle al clan sarebbe causate dalle minacce che avrebbe subito da alcuni esponenti della famiglia Mazzei per un debito di droga di 8 mila euro. Quei soldi avrebbe dovuti recuperarli con una rapina, ma invece è finito in manette. Quindi le “minacce sono arrivate in carcere”. Addirittura Christian Marletta, figlio di Simona Mazzei (la sorella di Nuccio, il capomafia), avrebbe “sbattuto” al muro la moglie intimidendola.

Da lì la paura anche di essere ammazzato. Pippo Conti, l’imprenditore di calcestruzzo coinvolto anche nel processo Chaos, gli avrebbe raccontato che Nino Rivilli, tra i vertici del clan, gli avrebbe fatto fare la fine di Jonathan Pasqualino, referente (secondo Cavallaro) della famiglia mafiosa a Motta Sant’Anastasia, e sparito nel 2015. La colpa del boss mottese sarebbe stata quella di non spartire i soldi della discoteca di Sigonella con la famiglia mafiosa. Al suo posto, a Motta, sarebbe stato “nominato” Daniele Di Stefano, ‘Manitta (che sta affrontando il processo abbreviato). Su quell’agguato – ancora non risolto – sono emersi altri particolari nel corso del controesame dell’avvocato Francesco Antille, che ha citato un passaggio di un interrogatorio reso da Luciano Cavallaro, in cui avrebbe riferito di alcuni spari sentiti proprio la sera della scomparsa di Pasqualino dalla cognata che poi li avrebbe riferiti alla suocera. E da quelle informazioni, collegate alle sue conoscenze in ambito criminale, sarebbe arrivato alla conclusione che il mottese sarebbe stato ammazzato. 

I Nicotra, dopo che il fondatore Mario u Tuppu è stato ammazzato, sono andati via da Misterbianco nei primi anni 90. Il rischio sarebbe stato quello di essere sterminati nella guerra contro Giuseppe Pulvirenti, u malpassotu. Per oltre un decennio hanno vissuto in Toscana. Poi nel 2010, siglato il ‘patto’ tra Tano Nicotra (fratello di Mario) e Santo Mazzei, sono tornati nella città al confine di Catania. Ed è in quel periodo che il gruppo criminale sarebbe tornato in auge. Luciano Cavallaro descrive la cabina di comando del clan. “Dopo il 2010 Tano Nicotra è il capo e in sua assenza – spiega il pentito – ci pensano Tony Nicotra (figlio di Mario) e Nino RIvilli”. Il gruppo al vertice si completa con Gaetano Nicotra, il piccolo, fratello di Tony. Anche se l’imputato, al termine dell’udienza, dichiara: “Non sono mai stato associato con nessuno e maggiormente con quest’ipotetica famiglia di cui parla tanto il signor pubblico ministero, perché non esiste”.  

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Eppure nemmeno il carcere avrebbe fermato Tano Nicotra (il grande). Il collettore con l’esterno sarebbe stata “la compagna”, racconta Cavallaro. “Comandava lui tutti”, dice il pentito. Droga, estorsioni, usura. La famiglia mafiosa avrebbe curato i ‘soliti’ affari mafiosi. E avrebbe avuto anche una cassaforte dove custodire i soldi. Sarebbe stato proprio l’imprenditore Pippo Conti a ‘custodire’ almeno “duecento mila euro” per conto del clan. E mentre si parla di denaro, il collaboratore racconta che Orazio Proto (quello della discarica) avrebbe portato una volta 5000 euro a Lucia Palmieri, moglie di Tony Nicotra e imputata del processo. “Ci porta i regali ogni anno”, commenta Cavallaro rispondendo alle domande del magistrato Bisogni.

C’è una larga parentesi dell’esame del pentito dedicata alla zona grigia della politica. Il segretario Dc Paolo Arena avrebbe garantito tra la fine degli anni 80 e inizi anni 90 supporto per l’aggiudicazione degli appalti. Poi avrebbe “tradito” i Tuppi. “Stava dando i lavori a Orazio Pino (ex malpassotu ucciso l’anno scorso in Liguria)”. E così sarebbe stato deciso il suo omicidio. “Io e Rivilli lo abbiamo ucciso al Municipio vicino la chiesa di San Nicolò. Con i fucili”, spiega Cavallaro. Quindi i rapporti con la politica è solo storia vecchia? No. Ci sarebbe stata addirittura un aiutino da parte del clan per portare voti a un esponente di Forza Italia, indicato dai Mazzei. Non sarebbe stato un misterbianchese. Cavallaro però non ricorda il nome. 

Luciano Cavallaro si è accusato di sette omicidi. Nella prossima udienza il pm depositerà – anche su sollecito dell’avvocato Francesco Marchese – l’avviso di conclusione indagine per quei delitti e per l’associazione mafiosa. 

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01 Luglio 2020, 05:52

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