18 Agosto 2013, 07:57
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L’abbiamo chiusa con cura, come facciamo ogni anno di questi tempi. Con l’insetticida in polvere davanti la soglia d’ingresso e le pezzuole a chiudere gli scarichi dei bagni. L’abbiamo guardata ancora una volta tirandoci la porta e girando la chiave due volte nella toppa. L’abbiamo salutata con la tristezza di chi sa che già domani comincerà ad attendere il momento in cui tornerà per far compiere al chiavistello il percorso inverso. La mia estate è finita e lei, la mia casa delle vacanze, se ne torna al silenzio e alla solitudine del lungo e ventoso inverno dell’isola di Vulcano.
Mio padre la comprò oltre 40 anni fa, quando ancora a Vulcano non c’era l’elettricità e usavamo i lumi a gas per illuminarla. Lo ricordo seduto davanti a me alla guida della sua 125 che rassicura mia madre: “Certo, è un po’ distante da Palermo. Ma adesso che completano l’autostrada ci metteremo meno di due ore per arrivare a Milazzo”. La storia di questa terra racconta che non bastarono altri 30 anni; perché quell’autostrada finita mio padre non la percorse mai. E poi quella notte d’estate del 1969 quando, sotto i portici di una pizzeria, vidi materializzarsi sullo schermo dell’unico televisore funzionante sull’isola le immagini lattiginose dei quattro passi più importanti della storia.
Mi rivedo ragazzino quando le vacanze duravano mesi e non un paio di settimane conquistate a fatica dopo un lungo negoziato con i compagni di lavoro. Quando con due stipendi si potevano mettere da parte i soldi per comprare una casetta per le vacanze. Mia madre che torna dalla Messa della domenica pomeriggio con il vestito giallo a fiorellini e il sorriso di chi ha appena parlato con Dio. Mio padre seduto sotto il porticato che pulisce la candela del suo Ciao rosso, il simbolo della libertà. Le partite a pallone all’imbrunire sulla spiaggia deserta, la pesca dei totani quando non c’era la luna e Annibale il bagnino tombeur che oggi piazza ombrelloni dove il sole è più vicino eppure non brucia e dove l’inverno non arriva mai. E poi le prime passeggiate sulla spiaggia di notte, la mia chitarra e l’arrivo del gruppo delle sei fiorentine che sparigliarono d’un colpo ogni equilibrio. Primo tra tutti quello di Barbara, l’amica di sempre, che mi legge ogni domenica da Milano e che esce di sera con indosso lo stemma della Croce Rossa per portare conforto ai barboni.
Un giorno arrivò lei, povera donna. Lei che non se andò più via. Da me, dall’isola e dalla casetta che ama ormai più di me e che non si stanca mai di rinnovare. I nostri bimbi piccoli, le Barbie di Manu e il costume di Gigino che volava via non appena posava il piedino sulla sabbia nera non capendo perché giusto lì il bagnetto non potesse farsi, come al solito, nudi. “Papà, aggiusta l’antenna ché non si vedono i cartoni”. Quel tempo è passato in fretta. Oggi la grande studia per guarire i piccoli e il piccolo, dall’alto del suo metro e novanta, fa sembrare piccolo suo padre. E noi due ci teniamo per mano mentre, tirando la valigia, volgiamo le spalle alla nostra casetta.
Il traghetto s’è ormai staccato dal molo. L’isola al tramonto è un trionfo di colori: il blu cobalto del mare, il bianco della scia della nave, il verde degli eucaliptus, il rosso delle rocce, il giallo dello zolfo, il nero della lava. Sospiro guardandola mentre i dettagli si diradano e lei diventa sempre più piccola e lontana. Tra un po’ sarò sulla strada che mio padre non percorse mai tutta intera. Prima di infilarmi nel ventre della montagna, come sempre, guarderò in alto verso il Santuario di Tindari dove mia madre mi portò da bambino e dove dicono che presto arriverà il Papa, prova vivente dell’esistenza della Provvidenza. Ecco, appunto: la Provvidenza di Dio. Un pensiero, un grazie, la tristezza che svanisce. In fondo, è solo la fine di una vacanza. Un’altra tappa del nostro viaggio sereno.
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18 Agosto 2013, 07:57