11 Agosto 2018, 17:10
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In un intervento dello scorso giugno auspicavo che i vescovi italiani, rispetto ad alcuni tentativi di strumentalizzazione della religione cattolica da parte di politici nazionali (come Salvini) o locali (come De Luca), facessero sentire con più energia la propria voce; che – senza entrare nel merito delle opzioni tecniche di governo – ribadissero chiaro e tondo che il cristianesimo non è una bandiera da sventolare per attrarre voti, né ancor meno una clava da brandire per minacciare minoranze etniche sgradite, ma un grappolo di princìpi etici tesi all’instaurazione in terra di una convivenza libera ed equa per tutte e per tutti.
E’ con sincera soddisfazione che apprendo dalla stampa, in particolare da “Famiglia cristiana”, che questa reazione da parte dei vescovi (o, per lo meno, di alcuni vescovi) c’è stata. Hanno iniziato, comprensibilmente, responsabili di diocesi di frontiera come Antonio Staglianò, vescovo di Noto, prendendo le distanze da quei “cattolici convenzionali che digeriscono senza problemi l’idea di abbandonare in mare gli immigrati, lasciarli morire per affermare il principio dell’identità nazionale e della forza dell’Italia nei confronti dell’Europa. Il Vangelo, invece, fa dell’accoglienza un principio non negoziabile”. Gli fa eco, dall’altro confine, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia: “Rifiutare, maltrattare, sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano fondamentale”. Un’altra voce autorevole è del vescovo di Agrigento (che è anche presidente nazionale della Caritas e, attualmente, l’unico cardinale alla guida di una diocesi siciliana). “E’ vero – afferma tra l’altro Francesco Montenegro – che noi non possiamo risolvere problemi complessi come quelli dell’immigrazione e della povertà – che esigono politiche a servizio di tutte le persone e adatte a garantire la sicurezza, il rispetto dei diritti e della dignità di ciascuno – ma come cristiani abbiamo il dovere di affrontarli osservandoli con la lente di Dio, che è quella della compassione”. Non meno esplicito l’intervento, in occasione del Festino di santa Rosalia, dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice: “Siamo noi i predoni dell’Africa. Noi i ladri che, affamando e distruggendo la vita di milioni di poveri, li costringiamo a partire per non morire”. Tra gli altri interventi (per esempio degli arcivescovi di Torino e di Bologna) non poteva mancare la voce di Gualtiero Bassetti, recentemente nominato presidente della Conferenza episcopale italiana: “Non si può chiudere il porto quando arriva una nave che è piena di disgraziati che sono dei crocifissi, per un motivo o per un altro”.
Molti autorevoli esponenti dell’episcopato italiano hanno dunque iniziato a farsi portavoce, e altoparlanti, degli inviti di papa Francesco a vivere la fede come impegno per i sofferenti prima che come adesione a dogmi astrusi o partecipazione a liturgie ormai anacronistiche. E’ un passo importante. Adesso, tuttavia, ne resta un altro – ancora più ardito e ancora più decisivo – da compiere: attuare gesti concreti, effettivi, di accoglienza e di solidarietà. Ci sono certamente associazioni, istituti religiosi, parrocchie che – autonomamente o con organismi di altre confessioni cristiane come i Valdesi – hanno iniziato a sbracciarsi le maniche: ma si tratta, ancora, di casi isolati. La maggior parte dei conventi e dei movimenti religiosi cattolici mantengono le porte chiuse o continuano a tenerle aperte solo a turisti forniti di contanti. Eppure questa traduzione in iniziative organiche, pubbliche, delle dichiarazioni d’intenti non è un optional: senza la testimonianza storica gli inviti dalle cattedre riceveranno, nelle ipotesi più benevoli, dei sorrisi di sufficienza.
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11 Agosto 2018, 17:10