23 Aprile 2015, 06:14
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PALERMO – La Sicilia ha vinto, ma ha già rinunciato a raccogliere i frutti di quella vittoria. Almeno per i prossimi di tre anni. La Consulta pochi giorni fa ha dato ragione all’Isola: lo Stato ha prelevato illegittimamente 235 milioni di euro l’anno dal 2012 a oggi. Ma il presidente Crocetta a quei soldi ha già rinunciato, appunto. Con l’accordo firmato nel giugno scorso che prevede il ritiro dai contenziosi col governo centrale. Un autogol. Dal potenziale valore di 4 miliardi.
Intanto, la Corte costituzionale ha dato il primo “schiaffo” a quell’accordo. Con una sentenza che dà ragione alla giunta di Raffaele Lombardo. Nel 2012 il vecchio governo regionale, infatti, insieme alla Regione Valle d’Aosta e alla Province autonome di Trento e Bolzano, presenta un ricorso contro la decisione prevista dal Ministero dell’Economia nel decreto legge “Cresci Italia”, di tenere per sé le entrate legate all’aumento delle accise su energia e carburanti. Una somma, come emerge anche dalla recentissima sentenza, pari a circa 235 milioni l’anno spalmata tra gli enti a Statuto Speciale. Soldi che spettavano anche alla Sicilia, come spiegano i giudici della Consulta: “La Regione Siciliana, – si legge nella sentenza – ha denunciato la lesione degli articoli 36 e 43 del proprio Statuto”. Norme ricordate sempre dai giudici: “Ai sensi del primo comma dell’articolo 36 dello Statuto della Regione siciliana, spettano alla Regione siciliana tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate, ad eccezione delle nuove entrate tributarie il cui gettito sia destinato con apposite leggi alla copertura di oneri diretti a soddisfare particolari finalità contingenti o continuative dello Stato specificate nelle leggi medesime”. È possibile, in linea teorica, una deroga a questa norma. Ma la normativa statale non si sarebbe attenuta alle prescrizioni necessarie per chiedere quella deroga. Insomma, quelle aliquote non dovevano essere aumentate. O comunque la riscossione dei tributi spettava al governo regionale. Quei soldi erano dei siciliani. Circa 73 milioni di euro l’anno, dal 2012 a oggi.
Ma il presidente della Regione, pochi mesi fa, a quei soldi ha già rinunciato. A fine giugno dell’anno scorso bisognava infatti chiudere l’ennesima finanziaria riparatrice, dopo i disastri evidenziati dalle impugnative del Commissario dello Stato. Così, ecco l’accordo firmato direttamente dal governatore, senza nemmeno passare dall’Ars. Tra gli articoli dell’accordo, ecco la rinuncia: “La Regione si impegna a ritirare, entro il 30 giugno 2014, – si legge al sesto punto dell’accordo – tutti i ricorsi contro lo Stato pendenti dinnanzi alle diverse giurisdizioni relativi alle impugnative di leggi o di atti conseguenziali in materia di finanza pubblica, promossi prima del presente accordo, o, comunque, a rinunciare per gli anni 2014-2017 agli effetti positivi sia in termini di saldo netto da finanziare che in termini di indebitamento netto che dovessero derivare da eventuali pronunce di accoglimento”.
Ha rinunciato a tutto, il governatore. Non solo ha deciso di ritirare alcuni dei ricorsi pendenti, ma, nel caso di procedimenti in corso, ha rinunciato, fino al 2017, agli eventuali effetti positivi delle sentenze. Tutto ciò, in cambio di circa 540 milioni “cash”. Quelle entrate, insomma, non saranno riconosciute anche per i prossimi due anni. Sei anni in tutto, durante i quali la Sicilia non incasserà, a causa di quell’accordo, somme che le spettano: un autogol da 450 milioni di euro.
E la recente sentenza sulle accise rafforza la tesi di chi ha criticato in quei giorni la scelta del governo. Qualcuno, ed è il caso del movimento “Sicilia nazione” guidato dall’ex assessore all’Economia Armao ha diffidato anche il governo Crocetta a “ritrattare” quell’accordo. Proprio Armao era stato l’assessore che in quei mesi, tra il 2012 e il 2013 aveva avanzato una serie di ricorsi per la violazione dello Statuto da parte del governo centrale.
Il 12 gennaio del 2012, ad esempio, il governo Lombardo si oppone a due commi previsti nella legge di stabilità nazionale. Quei commi (il 10 e l’11) contenevano disposizioni relative al patto di stabilità delle regioni a Statuto speciale. Un patto che il governo nazionale avrebbe siglato in maniera, sostanzialmente, unilateale. La determinazione delle somme oggetto del patto, infatti, questa è la tesi del vecchio governo regionale, doveva essere il frutto di una interolocuzione in sede di Commissione partitetica. Non solo. Quella norma, secondo il governo Lombardo, attribuiva alla Sicilia funzioni fino a quel giorno svolte dallo Stato, “senza che vengano impinguate le risorse finanziarie per farvi fronte”. La legge statale, insomma, violerebbe lo Statuto siciliano e il principio di “leale collaborazione”.
Passa un mese. E il 23 febbraio del 2012 la giunta regionale dà mandato al presidente Lombardo di avanzare un nuovo ricorso. Anche in questo caso di fronte alla Corte costituzionale. Un’altra norma statale avrebbe violato quei principi. Si tratta del decreto legge del 6 dicembre del 2011. Con quel decreto, infatti, lo Stato aveva deciso di anticipare “in via sperimentale” al primo gennaio del 2012 l’istituzione dell’Imu. “Una imposta – scrive nella sua delibera la giunta – divenuta operativa in Sicilia senza che sia stato previsto alcunché in ordine alle modalità applicative della stessa”. Ma non solo. Il ricorso riguarda anche la partecipazione al Fondo sanitario nazionale e la (de)regolamentazione sugli orari e sull’apertura degli esercizi commerciali. Anche in questo caso lo Stato sarebbe entrato in un campo che non gli spetta: di esclusiva competenza regionale. La rinuncia a questo ricorso è quantificata in 307 milioni di euro l’anno per i prossimi quattro anni (dal 2014 al 2017). Il 21 maggio 2012, nuovo ricorso. Contro altri commi del “Cresci Italia”. Il motivo del ricorso è fondato sulla scelta dello Stato di sostituire il “sistema gestionale di tesoreria mista” col sistema gestionale di tesoreria unica”. Inoltre, quella norma prevedeva l’istituzione del “Tribunale delle imprese”. Anche in questo caso la Regione ha eccepito che le imposte riscosse nel territorio siciliano debbano restare in Sicilia, come sancito dall’articolo 36 dello Statuto. La portata di questo ricorso è stata quantificata in 116 milioni di euro l’anno per quattro anni. Circa mezzo miliardo. Solo per questo ricorso.
Il ricorso economicamente più “pesante”, invece, è quello avanzato dal governo Lombardo con la delibera di giunta del 2 ottobre 2012 contro il decreto legge del 6 luglio di quell’anno. Sono stati “impugnati” in particolare gli articoli 4 e 16. Il primo articolo riguarda l’applicazione dei limiti agli affidamenti diretti anche per le società in house e per l’acquisto di beni e servizi oltre all’obbligo di scioglimento o privatizzazione delel società partecipate. Ma è l’altro articolo ad avere immediate ripercussioni dal punto di vista finanziario. Il decreto infatti “onera le Regioni a Statuto speciale di un altro ingente e continuativo concorso alla finanza pubblica”. Un decreto, tra l’altro, che destina allo Stato il compito persino di emenare le norme attuative, che dovrebbero spettare alla Regione. Un ricorso che avrebbe consentito al governo regionale di richiedere indietro 641 milioni per il 2014 e 673 milioni per gli anni che vanno dal 2015 al 2017: oltre 2,6 miliardi di euro. Quasi quattro miliardi in tutto. Bastava attendere che la legge facesse il suo corso. Pochi giorni fa, la Corte costituzionale ha dato ragione alla Sicilia: quei 235 milioni l’anno spettano ai siciliani. Ma Crocetta aveva gà deciso di rinunciare a quei soldi.
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