La costruzione di un dottore

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10 Agosto 2014, 20:28

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Tornando a casa qualche giorno fa, ascoltavo in radio una vecchia canzone di Ivano Fossati, una di quelle che più l’ascolti e più l’ami. Ripassatela a mente leggendo l’incipit: “La costruzione di un amore spezza le vene delle mani, mescola il sangue col sudore se te ne rimane”. Io amo profondamente il mio mestiere, per me il più bello del mondo. Io faccio il dottore e formo dottori. Non ci sono parole che possano esprimere la soddisfazione di formare persone che salvano persone, di veder arrivare ragazzini che tremano avvicinandosi a un braccio per misurare la pressione e vederli partire qualche tempo dopo, pronti a percorrere sulle loro gambe le vie impervie di una professione infame e nobilissima.

Ci sono tante cose, oltre la semeiotica e la metodologia, che dovrò ricordarmi di insegnare bene ai miei allievi. La prima è che la cifra etica richiesta a un dottore non ha eguali. A giudicare dai commenti su questo giornale, è più riprovevole un medico che – secondo l’accusa – compie irregolarità nell’attività libero-professionale intramuraria che un prete che – stando alla cronaca – sfrutta alcuni poveri disperati per scopi sessuali. A un dottore non è concesso sbagliare. Né con le fratture, né con le fatture. Questo soldato di Ippocrate sarebbe stato colto in flagranza nel più diffuso tra i reati che si compiono in Italia: l’accordo tra due soggetti per fregare lo Stato e tutti gli altri cittadini. Un reato odioso, ma tollerato tranne che a commetterlo sia un medico. Lo notavo qualche giorno fa in pasticceria: uno sconto sul prezzo della crostata al gelo di anguria che ho portato a casa e niente fastidiosi pezzettini di carta sputati dal registratore di cassa. Chi arresterebbe ipso-facto il pasticciere ? O vogliamo parlare degli ambulanti, dei barbieri, degli artigiani, dei ristoratori, dei gioiellieri il cui reddito medio annuale (Dati Ministero delle Finanze) è sotto i 20.000 euro. Davvero la Legge è uguale per tutti?

Certo, nel caso in specie, non va dimenticato il danno all’Azienda Ospedaliera (che brutto nome per un luogo dove si nasce, si soffre e si muore) che trattiene per sé oltre metà dell’onorario in cambio della disponibilità dei locali e poco altro. Ed ecco un’altra cosa che sarà bene che i miei allievi imparino presto: il rapporto tra un’Azienda Ospedaliera e un medico dipendente è quanto di più sbilanciato possa esistere nel pubblico impiego italiano. I doveri sono certi e quando si sbaglia si paga, come è giusto che sia. Invece i diritti sono del tutto aleatori. Si chiede al medico, il fulcro di ogni struttura sanitaria, fedeltà totale, ma la fedeltà dell’Istituzione al medico e alla sua funzione è un optional. Ne ho scritto alcune settimane fa e la Comunità Europea si è espressa contro l’Italia: organici al collasso e sempre più vetusti, turni massacranti, turnover annullato, nessun supporto all’aggiornamento professionale o all’adeguamento tecnologico, straordinari non pagati, ferie non godute, contratti fermi da anni e progressivamente deprivati del potere d’acquisto.

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Questo non giustifica scivoloni oltre il confine della legalità, ma rende sdrucciolevole la superficie su cui ci si muove. Un reato è un reato, ma i margini per gli imbrogli si restringerebbero se il sistema non fosse così inefficiente. La terza cosa che sarà bene ribadire ai miei ragazzi è importantissima, anche se risulta sempre più insopportabile a tanti di noi: il medico svolge una missione, non un lavoro per portare il pane a casa. Dopo oltre 30 anni di carriera, notti insonni, ferie quando dicono gli altri, cenoni di Natale con i fratelli infermieri e non con moglie e figli e l’esperienza dell’infarto che uccise mio padre passata lontano da lui ad assistere senza poter lasciare l’ospedale una cinquantina di sconosciuti, conosco benissimo la differenza che intercorre tra il mio mestiere e quello di un impiegato del catasto. Il vero problema è la vaghezza del confine tra lo status di missionario e quello di impiegato pubblico.

Al medico si ricorre, seguendo le vie più impervie della raccomandazione per un consulto il più delle volte gratuito ed invariabilmente urgente, specie se il raccomandato (o il raccomandante) è “persona di riguardo”. Inclusi, è ovvio, dirigenti dell’Azienda, politici, magistrati ed esponenti delle Forze dell’Ordine (e loro amici, parenti e conoscenti). Tanto a lui cosa costa: è lì per aiutare chi soffre. I miei allievi dovranno ricordare che il medico non deve mai guardare l’orologio. Che dovrà tornare in ospedale se lo chiamano anche quando è fuori servizio. Che dovrà agire per il meglio in qualsiasi condizione sia posto da chi governa, bene o male non conta, il suo operato. Che dovrà sopportare aggressioni verbali, fisiche, o persino sessuali, come accaduto pochi giorni fa. Perché il dolore e l’ansia riducono l’autocontrollo. Che dovrà difendersi dalle accuse di malasanità oltre ogni diagnosi e ogni prognosi. Che dovrà barcamenarsi tra la necessità di ridurre la durata delle degenze e quella di non dimettere un paziente troppo presto. Che dovrà evitare i ricoveri impropri, ma anche di passare i guai se manda a casa un paziente che avrebbe dovuto trattenere. Che dovrà pagare con la sua faccia il suo status di interfaccia (mi sia concesso il calembour) tra il sistema e l’utenza. Come avviene quando mancano farmaci e posti-letto.

E che dovrà pazientare sorridente anche quando ogni parola di chi gli è di fronte sottende una minaccia più o meno manifesta. Quante cose ho imparato in questi anni. Quante cose dovrò insegnare ai miei allievi. Davvero un’impresa da spezzare le vene delle mani. Ma per me ormai il più è fatto. E forse è meglio che per una volta essi non leggano il mio commento domenicale. Potrebbero decidere di cambiare strada. O forse di cambiare maestro.

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10 Agosto 2014, 20:28

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