La credibilità di Ciancimino jr| e la “mafiosità” di un politico

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28 Gennaio 2010, 00:34

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Massimo Ciancimino è stato ritenuto “altamente credibile” dalla seconda sezione penale del tribunale di Palermo. Il giudizio scaturisce dalle motivazioni della sentenza di condanna del cosiddetto processo Mercadante. La sua testimonianza ha fatto da riscontro alle dichiarazioni dei pentiti Angelo Siino e Giovanni Brusca su un episodio specifico, la “vicenda D’Amico”. Ma “il peso delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino nel presente processo non è per nulla decisivo” – scrivono i giudici presieduti da Bruno Fasciana aggiungendo che “sarà compito di altri processi ed altre autorità giudiziarie valutare compiutamente e nel dettaglio la sua complessiva attendibilità”.

Il processo. Quello giunto a sentenza nel luglio scorso è uno dei filoni derivanti dall’operazione “Gotha” del giugno 2006, di cui la maggior parte degli indagati hanno chiesto il processo abbreviato giunto a sentenza di secondo grado. Bernardo Provenzano (condannato a sei anni), Antonino Cinà (16 anni), Lorenzo Di Maggio (9 anni e 4 mesi), Giovanni Mercadante (10 anni e 8 mesi), Marcello Parisi (assolto) e i commercianti Maurizio Buscemi, Calogero Immordino, Vito Lo Scrudato (assolti) e Paolo Buscemi (sei mesi) hanno scelto il rito ordinario.

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Le motivazioni. Mentre gli altri imputati sono personaggi già noti alle cronache per fatti di mafia, Giovanni Mercadante, ex deputato regionale di Forza Italia, per la prima volta è comparso davanti ai giudici. Secondo la sentenza, il politico è stato a lungo legato a Cosa nostra, né ha ricevuto i voti nelle elezioni e ha ricambiato facendo favori. “Mercadante ha dimostrato nel tempo – motivano i giudici – anche in modo crescente, di non esitare a piegare la propria cultura, la propria scienza medica e capacità politica ad interessi mafiosi, a fini di tornaconto professionale e personale”. Il suo ruolo era emerso durante le indagini della squadra mobile, coordinate dalla Dda di Palermo, in cui si sentiva Cinà e Rotolo parlare del politico. “Mi vitti cu Giovanni Mercadante – dice il primo al secondo – ci rissi tu stai… senza speranza…s’allarga chi discursi su… sempri a ura di elezioni. Ci fici una premessa, finero i tempi chi betta filava e ni pigghiavavu pi fissa, un c’esci nienti! Chi mi runi, chi ti rugnu, anchi picchì taiu eletto, ti v’abbuschi 20 miliuna o misi grazie ai nostri voti”. Era il periodo della tornata delle elezioni regionali del 2006, Mercadante era già stato consigliere comunale a Palermo e nel 2001 eletto all’Ars, sempre con Forza Italia. Il suo legame con Cosa nostra parte dalla parentela con Tommaso Cannella, boss di Prizzi, suo cugino. Mercadante, dunque, ha fatto parte di Cosa nostra e “segnatamente – scrivono i giudici – di una ristretta cerchia di persone che curavano a vario titolo gli interessi di Provenzano Bernardo, diventandone un punto di riferimento nel periodo della sua latitanza”. Ma non solo a lui avrebbe dato assistenza. “Si contesta in particolare al Mercadante – continua il dispositivo – di aver stretto rapporti anche con altri capimafia tra cui Cannella Tommaso, Cinà Antonino e Rotolo Antonino”, funzionali alla realizzazione degli interessi di Cosa nostra, “fornendo prestazioni sanitarie a latitanti e mettendo a disposizione la struttura sanitaria in cui operava, ricevendo l’appoggio elettorale dei mafiosi ed inserendo nel proprio staff politico, a seguito di precise indicazioni ricevute, il coimputato Parisi anche in vista di una sua candidatura elettorale alle comunali in programmazione nel 2007”. Sulla sua pericolosità sociale, infine, i giudici gettano una “pesante ombra di sospetto”, riferendosi in particolare a quando “Mercadante si rivolse al Cannella per una cruenta lezione al suo ‘rivale’, a difesa del proprio onore di marito tradito (…) in quella occasione il versamento di sangue fu evitato solo dall’intervento di mediazione svolto proprio da quel Bernardo Provenzano al quale il Mercadante aveva sempre garantito i propri servigi sanitari”. La cosiddetta “vicenda D’Amico”.

Il ruolo di Ciancimino. A parlare per primo della vicenda personale di Giovanni Mercadante è stato Angelo Siino. Secondo il pentito Mercadante aveva sollecitato Cannella per l’eliminazione o un pesante intervento punitivo nei confronti di Enzo D’Amico, reo di aver intrattenuto una relazione extra-coniugale con sua moglie. Questa vicenda aveva creato degli attriti fra le famiglie Cannella e Lipari. D’amico, infatti, era nipote di Pino Lipari, il “commercialista” di Bernardo Provenzano e col nipote di questi, Carmelo Gariffo, era pure socio in una ditta di distribuzione di prodotti ospedalieri. Provenzano ha negato l’autorizzazione all’eliminazione e consegnato la palla nelle mani di Vito Ciancimino, abile mediatore e, soprattutto, conoscente di ambedue le famiglie. Qui entra in gioco il figlio Massimo. “La vicinanza di Massimo Ciancimino al padre, ha fatto di lui un testimone, se non un protagonista di riflesso, di incontri ed episodi oggi al centro di interesse investigativo in quanto utili a ricostruire il perverso sistema di frequentazioni, alleanze ed accordi politico-istituzionali che fece dei ‘Corleonesi’ dei vari Liggio e Riina, un centro di potere, oltre che un gruppo di mafiosi assassini senza scrupoli, capace di condizionare la storia politico-sociale-economica della Sicilia (e in parte della Repubblica) dagli anni Settanta a buona parte dei Novanta” si legge nella sentenza. “Quel che è certo – continua – e che può indiscutibilmente affermarsi nel presente processo, è che egli ebbe realmente modo di assistere ad incontri tra il padre e Provenzano (dal dichiarante conosciuto in gioventù sotto il nome di ‘ingegnere Lo Verde’) ed, ancora, del padre col Lipari e Cannella, nella propria abitazione familiare e nei luoghi domiciliari in cui il padre fu ristretto o ‘confinato’. Incontri in cui Vito Ciancimino e i suoi interlocutori parlavano di affari, appalti, mafia e politica: costoro, in quanto uomini di fiducia di Riina e Provenzano, erano tra i pochi ‘eletti’ ad essere ‘accreditati alla corte’ di suo padre, che li aveva più volte incontrati”. Ciancimino jr nel processo parla della “vicenda D’Amico” e di come suo padre aveva trovato la soluzione chiedendo allo stesso di allontanarsi dall’Italia, anche perché Mercadante aveva nuovamente intessuto i rapporti con sua moglie. D’Amico avrebbe accettato e per un anno si è allontanato da Palermo. La sentenza sottolinea infine che “a differenza del padre, che conosceva il Mercadante solo di vista, Massimo Ciancimino non solo aveva avuto modo di conoscere personalmente il Mercadante (era stato compagno di scuola di uno dei figli), ma aveva frequentato per un certo periodo ‘salotti’ e circoli sportivi-ricreativi comuni ad entrambi (Country, Lauria); e per di più, ad un certo punto, aveva cominciato a frequentare casa Mercadante, avendo iniziato una storia sentimentale con Gisella”, figlia di Mercadante.

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28 Gennaio 2010, 00:34

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