24 Maggio 2010, 15:52
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Stiano sereni i laudatores di Raffaele Lombardo. Nessuno da queste colonne maramaldeggerà sulle sue disavventure giudiziarie. “Ciascuno se la veda con i propri peccati”, annotava Cervantes che di nefandezze se ne intendeva, eccome. Ma una cosa va detta, costi quel che costa. Che questo governo – culturalmente parlando, va da sé – sarà ricordato come il più inquinante e corrosivo. Analizziamo un solo caso: la presenza in giunta di Caterina Chinnici, un magistrato che ha sempre fatto onore non solo alla propria toga ma anche alla memoria del padre, quel Rocco Chinnici che fu grand’uomo e gran galantuomo; un giudice d’altri tempi, talmente sicuro e tenace nella lotta alla mafia che i boss, per fermarlo, l’hanno dovuto far saltare in aria con un’autobomba.
La signora Chinnici, nella sua carriera, ha mantenuto lo stile del padre. Non ha cercato il palcoscenico, non ha rivendicato eroismi e, a differenza di molti suoi colleghi, non ha mai mostrato come trofei le teste tagliate dei potenti, spesso arrestati come volgari gaglioffi e poi, dopo qualche anno, regolarmente scarcerati perché le prove non c’erano o erano labili e difettose. Caterina Chinnici, insomma, non è mai stata una professionista dell’antimafia: non ha usato a sproposito il nome del padre, non ha amministrato indulgenze e non ha distribuito patenti di immacolatezza né ai faccendieri né ai traffichini travestiti da statisti.
Eppure, a un certo punto della sua vita, ha sentito il bisogno di impegnarsi direttamente in politica, di metterci la faccia. Scelta ammirevole, senza dubbio: non si può salmodiare contro le cose che non vanno e starsene contemporaneamente tra le farfalline del proprio giardinetto a godersi la tranquillità di chi non mette mai un ditino nell’acqua calda; non si possono segnare a dito le responsabilità di chi governa e poi sonnecchiare nella cuccia dorata delle proprie abitudini. Non si può. E Caterina Chinnici ci ha provato. Con zelo e, certamente, anche con la legittima attesa di risultati meravigliosi. Invece, dispiace dirlo, la favola non ha avuto happy end. Perché la palude politica nella quale è scivolato questo governo ha finito per risucchiare non solo quelli che si erano legati al carro di Lombardo per ottenere incarichi e prebende, favori e privilegi; ma anche quelli, come Caterina Chinnici, che avevano accantonato una posizione di comodità e di prestigio per affrontare quella malabestia che è la politica.
È molto difficile stabilire, in questo momento, quali saranno le colpe che i giudici catanesi contesteranno formalmente al Presidente della Regione dopo mesi di mezze notizie e mezze smentite. Ma una cosa è certa: la predicazione antimafia messa in piedi dal Grande Comunicatore di Grammichele, subito dopo il suo ingresso a Palazzo d’Orleans, altro non era – e l’inchiesta di Catania sta lì a dimostrarlo – che un bocconcino avariato col quale attirare nella gabbietta garrula del suo governo i portatori sani di rigore e moralità. Per arruolare cioè tutti quegli uomini che, grazie alla lucentezza delle loro storie personali, avrebbero prima o poi sparso una caritatevole vernice di oblio sulla storia politica del Governatore, quella sì alquanto appannata, perché costruita col rito della raccomandazione e della clientela.
Un’operazione furba, non c’è che dire. Ma certe storie, in particolare quelle maleodoranti, sono difficili da calcellare. E quando la procura di Catania ha provato a rimestarle, i portatori sani di rigore e moralità sono rimasti spiazzati. Come Caterina Chinnici, appunto. Che, per un beffardo capriccio del destino, oggi si ritrova – proprio lei, la figlia di un eroe antimafia – a governare su delega di un inquisito per mafia.
Un danno culturale incalcolabile, solo se si guarda alle future generazioni: quale altro portatore sano di rigore e moralità potrà mai decidere, in questa infelice Sicilia, di dare il proprio onesto contributo alla politica se persino la candida Chinnici è finita nelle paludi melmose, alla mercè di serpenti e alligatori?
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24 Maggio 2010, 15:52