30 Gennaio 2011, 02:27
2 min di lettura
Non ci piace l’antimafia delle forche e dei cannoli usati come frecce di un’irrisione. Non ci piace l’antimafia crudele, avvinta a una santa cecità che nasconde l’orizzonte umano alla vista dei suoi occhi bendati. Non ci piace l’antimafia a senso unico, quella che: o la pensi come me o sei mafioso. L’antimafia che non accetta il diverso parere, né la discussione, ma che conosce soltanto il rogo, l’anatema per i ragionamenti che non corrispondano ai suoi solchi tracciati, non ci piace.
Preferiamo l’antimafia sobria, che prova legittima soddisfazione per la giustizia, senza inebriarsi del sangue del nemico, fosse pure il più infame degli infami. La giustizia amministra con le sue regole, deve essere fiera quando conclude i suoi processi, può dirsi orgogliosa quando punisce coloro che hanno smontato e compromesso l’ordine sociale, coloro che si sono resi protagonisti e complici di un crimine. E in Sicilia, la mafia è il Crimine, il perverso genio sovvertitore dei lineamenti di una terra che sarebbe, altrimenti, migliore.
Tuttavia, la giustizia vera non prova piacere per i colpevoli che finiscono tra i denti del suo meccanismo. Lo stesso vale per gli uomini civili. Siamo contenti, appunto, se è stata fatta giustizia, perché un torto è stato riparato col meccanismo imperfetto della pena (nessuna condanna salda esattamente nello stesso modo il tessuto che è stato lacerato). Siamo lieti quando funziona il sistema di uno Stato democratico, praticamente un miracolo. Ma le persone che conservano una misura umana non possono bearsi della sofferenza di un criminale, nemmeno del peggiore. Il dolore di un reo, nella complessa trama della giustizia, è un effetto innegabile e perfino logico, mai il presupposto di un sorriso sguaiato. Ci muoviamo su un terreno impervio e scosceso, se la sentenza diventa una fonte di gaudio: la gloria del patibolo.
Oggi abbiamo come un’impressione sgradevole: che parte dell’antimafia militante abbia declinato la giustizia in vendetta. Esistono vicende e lutti che gridano certamente vendetta al cospetto di ogni dio. Una volta un luminoso Claudio Fava scrisse pressapoco: “Noi non abbiamo combattuto in nome delle nostre ragioni private, ma per la ragione di tutti”. Ci sono storie fondamentali dell’antimafia che nascono da una motivazione biografica, da una mutilazione intima e irreparabile. Alcune sono patrimonio e ricchezza di tutti, perché sono passate dal lavacro della riflessione e dell’oggettività e contengono davvero la speranza di ognuno. Altre storie sono rimaste confinate nel loro cuore straziato.
Recano l’amarezza di una cicatrice non sanata, non il senso di giustizia, come titolo e contenuto. E’ legittimo, forse inevitabile che talvolta accada, come è inevitabile che in fondo alla strada, in casi del genere, ci sia la felicità della forca.
Pubblicato il
30 Gennaio 2011, 02:27