09 Marzo 2014, 07:45
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Martedì 4 marzo 2014, mentre in televisione veniva reso un meritato tributo al film di Paolo Sorrentino, sui social network andava in scena un altro spaccato dell’Italia contemporanea: “La Grande Grettezza”. Sia chiaro, il film può piacere o meno: luci ed ombre si alternano e sono le specchio di un Paese dalle grandi ed irriducibili contraddizioni, ma è innegabile che abbia regalato a tutti, indistintamente, un’emozione da rielaborare sulla base della propria sensibilità. Ha offerto sentieri da percorrere alla ricerca del messaggio che più si sente vicino al proprio modo di essere e di sentire, in aderenza al proprio vissuto, alla consapevolezza del presente ed alla speranza che si nutre verso il futuro.
Pur nel rispetto del diritto di critica, la circostanza che l’attributo che spesso ha accompagnato i commenti dei detrattori del film sia stato “la grande cagata” è, tuttavia, sintomo di inaccettabile grettezza. Liquidare l’opera di Sorrentino in quelle poche sillabe è una sconfitta per chi avrebbe potuto, e forse dovuto, esprimere le ragioni del mancato gradimento, condividendone i rilievi ed evidenziando aspetti magari rimasti ignoti a chi, invece, ha apprezzato il film. Non è, ovviamente, difficile rinvenire il riferimento più immediato nella popolare critica di Paolo Villaggio a “La Corazzata Potemkin” dinanzi ad un auditorio, prima attonito, e poi finalmente libero di esprimere una frustrazione a lungo repressa come un novello Spartaco che spezza le catene. Ma al di là delle semplici affinità cinematografiche che questa scena riporta alla memoria, il fattore che più sembra aver influenzato questo modo di esprimere il proprio dissenso critico è probabilmente da rinvenire in una cultura forgiata da anni di talk show a sfondo politico.
Vere e proprie arene in cui abbiamo visto divenire familiari individui a noi ignoti che da liberi pensatori si sono trasformati in anonimi esponenti di una linea di pensiero da propagandare, difendere con oltranzismo da ogni coraggioso tentativo di confronto e di critica pena l’imbarazzante eventualità di scorgere nelle opinioni altrui utili spunti di riflessione, critiche fondate e costruttive. Sembra spaventarci la prospettiva di riconoscere anche negli altri qualcosa di valido da assumere a modello nel timore di veder demolite le certezze in cui troviamo rifugio per fronteggiare debolezze ed insicurezze.
Così, come frombolieri rintanati tra le mura merlate di un castello, ci ritroviamo a lanciare invettive nei confronti di chi, con la forza delle proprie idee, assedia le nostre più radicate convinzioni. Come mercenari del conflitto ideologico, alla affannosa ricerca di nuovi campi di battaglia, poco importa se a noi congeniali, il bisogno di partecipare all’agone e di alimentare una costante contrapposizione talvolta diviene necessario per dare concretezza ad una altrimenti pallida e vacillante identità. Armati di scorte inesauribili di pressapochismo, banalità, faziosità e veleno con il quale intingere frecce avvelenate da scagliare indifferentemente contro ogni genere di causa, rispondiamo con entusiasmo ad ogni quotidiana chiamata alle armi. Attaccare per sentirsi vivi.
Ogni tema va bene, non occorre saperlo padroneggiare o affrontare, perché da sempre distruggere è più semplice di costruire ed in questo tutti possono cimentarsi. Non esiste il modo perfetto di demolire, chiunque può farlo senza timore di non sentirsi all’altezza del compito. Dinanzi al successo altrui non resistiamo alla tentazione di una critica distruttiva, tanto più virulenta quanto incompetente in cui troviamo una dimensione accogliente. Abdichiamo all’osservazione puntuale a favore del commento nichilista, demolitore, che non lascia spazio a punti di contatto, a distinguo; tutto è bianco o è nero in un conflitto che non è più una ragione di vita ma ne rappresenta l’unica forma soddisfacente.
Neghiamo ogni meritata attenzione al valore o al talento altrui, pur essendo prodighi nel riservare a chiunque critiche aspre, cattive, troncanti. Mostriamo sempre più spesso immobilismo su posizioni intransigenti che trovano conforto nel giudizio sommario, lapidario, impermeabile ad ogni ulteriore spunto di riflessione, nel dogma rispetto al quale non vi è alternativa che accettare acriticamente se non si vuol accendere la miccia di un nuovo ed ulteriore conflitto. Questa volta, pur di partecipare ad una lotta partigiana senza quartiere, abbiamo anche rinunciato ad uno dei tratti più caratteristici del nostro essere italiani: l’orgoglio nazionale cui sempre siamo soliti accompagnare un campanilismo pavoneggiante.
La vera grande bellezza, ormai svanita sino ad essere dimenticata, risiede nella ricerca delle parole più adatte ad esprimere le proprie idee, tanto più accurata quando si vuol manifestare dissenso. Non è questione di forma, di vuota apparenza: è questione di civiltà e di rispetto per coloro che esprimendo sé stessi attraverso le proprie opere mettono a nudo le proprie emozioni più intime accettando di esporsi alla critica ma non al disprezzo ed all’offesa. Dinanzi ad una forma di arte, non esiste un valore oggettivo che possa prescindere dalle sensazioni attraverso le quali ciascuno di noi filtra ogni opera fino a sentirla propria.
Piaccia o meno, ogni opera esprime il sentimento di chi l’ha creata ed offerta e di chi l’ha vissuta; questo sentimento merita maggior rispetto e il volgare dileggio pertanto risulta indigesto quanto il complimento piacione, ruffiano, privo di autentica consapevolezza. Se mettessimo nel nostro impegno quotidiano lo stesso zelo che caratterizza la continua ed inesauribile critica di tutto ciò che accade intorno a noi, l’Italia sarebbe un Paese migliore e saprebbe trovare ed offrire agli altri almeno uno sprazzo di bellezza su cui costruire il futuro.
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09 Marzo 2014, 07:45