La grande fuga dagli stadi? | Ma se l’avete voluto voi…

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01 Novembre 2010, 08:03

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Se non fossimo in Italia, verrebbe da pensare a un semplice, inqualificabile errore. Invece in tutta la stomachevole questione della “tessera del tifoso” c’è una logica spietata ed evidente: allontanare le persone perbene dallo stadio, sperando acquistino le partite in Tv.
L’abbonamento è un titolo al portatore. Chi s’abbona, si garantisce un posto, “quel” posto, non la propria presenza fisica lì. Invece, utilizzando lo spauracchio della sicurezza, è obbligatorio eseguire un cambio di nominativo, presentando abbonamento e documento di identificazione, ad uno sportello (uno, di numero) appena fuori dallo stadio. Sportello inspiegabilmente aperto soltanto la domenica mattina (è davvero così assurdo tutelare gli abbonati, persone che investono in anticipo sulla società, dedicando uno sportello tutto per loro aperto anche soltanto un paio di giorni prima dell’incontro?). La novità di questo anno però è che il cambio di nominativo con documento e abbonamento non basta più. Perché adesso serve la “tessera del tifoso” imposta dal ministero degli Interni. Che costa 10 euri. Serve, è necessaria, senza, il cambio è impossibile. Nonostante si presenti abbonamento e documento. Perchè? La risposta ottenuta allo sportello è degna della peggiore burocrazia di kafkiana invenzione: siccome il titolare dell’abbonamento possiede la tessera del tifoso (condicio sine qua non per abbonarsi, mica libera scelta), pure chi subentra dovrà possedere la medesima. Se fossimo in un gioco di sofismi stupidi, sarebbe anche divertente. Pensa se l’abbonamento di tale Mariella Rossi dovesse andare a tale Pippo Tremmotori. Cheffà, siccome la signorina Mariella non ha i santissimi allora anche il Tremmotori? Viene inqualificabilmente ignorata la ragione prima del cambio di nominativo: l’abbonato quel giorno (peccato non si possa più scrivere: quella domenica alle 15) non può e cede il suo posto (essendo l’abbonamento, è utile ricordarlo, un titolo al portatore) a qualcuno che di solito allo stadio non ci va (e che quindi non ha voglia alcuna di sottoscrivere quella gabella arraffapiccioli ribattezzata “tessera del tifoso”).

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 In Italia si parla sempre più di sicurezza e – anche se chi scrive è contrario, sia detto per onestà – si può tuttavia ammettere che, in un paese arretrato come il nostro in cui si fanno entrare molotov e bestie a Marassi ma si sottraggono agli ingressi del medesimo stadio al contempo le bottigliette d’acqua ai piccirìddi, questo ci può stare. Ma che necessità c’è di chiedere davanti ad un abbonamento anche la “tessera del tifoso”? C’è puzza di raccolta di fondi. I pìccioli, questo bisogno come il sangue per un vampiro. Anche perché, e qui, signore e signori, qui c’è il capolavoro che rasenta davvero il ridicolo, si può comprare un biglietto ai bagarini (calcio in culo alla “legalità”, number one) – uno di quelli nominali – e andare al medesimo sportello (che è sempre uno, non sia mai attuare per gli abbonati una politica di incentivo e tutela) ed effettuare legalmente il cambio di nominativo(calcio in culo alla “legalità”, numer two). Per il biglietto, la “tessera del tifoso” non è richiesta. Non è questo il luogo per rimarcare come la legge, se errata, va cambiata, non essendo mai la legge un valore assoluto. Esistevano leggi razziali, per dire. Il punto è altro. È francamente strabiliante sentire i vertici del mondo del pallone lamentarsi della fuga dagli stadi. Ma dove vivono? Ah, vero, in tribuna. Coi biglietti omaggio. Per tutti gli altri, non funziona così. Nella vita reale, andare alla partita è sempre meno una festa: gli orari degli incontri sono ad minchiam, secondo uno zapping insensato che non tiene conto di nulla, né delle logiche televisive né dei diritti di chi lavora. Fare i biglietti, poi, è una impresa titanica e internet pare essere un nemico cui è meglio stare lontani. In più, le crescenti assurdità burocratiche disamorano ogni volta sempre di più. Di certo, si disincentiva un nuovo pubblico potenziale. La strategia comunicativa è talmente fallimentare che, non volendo credere alla stupidità assoluta di chi ha promulgato codeste insensatezze (e, sia detto per inciso: anche la società Palermo calcio è vittima di questa situazione, tanto che il presidente Zamparini ha rimarcato più e più volte l’inadeguatezza di questo obbligo), rimane solo la possibilità di un disegno che miri artatamente a rendere il pallone uno spettacolo da fruire in TV, o, se si è belli ammanicati, da quella tribuna coi biglietti aggratis, ovvio. Tertium non datur. Così è sempre più avvilente constatare come all’abuso della parola “libertà” corrisponda una tragica limitazione progressiva della stessa. Il calcio non è un giocatolo che si sta rompendo, semplicemente sta iniziando a venire a noia l’idea stessa di gioco, perché l’oggetto che dovrebbe dare gioia si complica insensatamente ogni giorno sempre di più seguendo regole inventate da chi, quel giuoco, bellamente l’ignora. L’importante, in ogni caso, è non cambiare canale, ché torniamo subito dopo gli spot, click.

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01 Novembre 2010, 08:03

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