La guerra del pallone

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08 Settembre 2013, 06:30

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In principio fu il Super Santos. L’ammaccone sulla fiancata della macchina venne dopo. E scoppiò la guerra del pallone. Ai tempi della nostra adolescenza le parti in commedia erano chiare. Noi, torma di ragazzi selvaggi che si scatenavano lungo pomeriggi assolati, per riscattare i tediosi congiuntivi della scuola media. Loro, le facce che si sporgevano da un balcone, piegate nelle forme più varie dell’ira, adulti che rincorrevano, bottegai che lanciavano il grido bellicoso della fazione di appartenenza: “L’amu a tagghiari” (lo dobbiamo tagliare, per gli altoatesini in transito). In mano reggevano come ostaggio il suddetto Super Santos. Ma quando lo tagliavano davvero, con un gesto brutale, era come vedere sgozzare un bambino.

Ora i ruoli si sono leggermente modificati. C’è il sindaco di Capaci che con una ormai celebre ordinanza ha vietato “di poter giocare a pallone, tenendo comportamenti che possono arrecare danno a beni pubblici e di privati e molestare i passanti o le persone che sostano o abitano in prossimità degli spazi”. C’è un paese di genitori e nonni partigiani che urla alla prescrizione liberticida e organizza manifestazione pittoresche di protesta. E noi che fummo ragazzi selvaggi – chi mai lo crederebbe? – con chi dovremmo schierarci?

Noi, se volevano sentirci importanti, noi bambini degli anni Settanta-Ottanta, nel quartiere che ci ospitava, con la scuola, la chiesa e poco verde, giocavamo allo ‘Scipione’. Era un pezzo di cemento recintato che prendeva il nome da un antico rivenditore ‘Scipione Lequaglie’. Si scavalcava un cancelletto arrugginito, attenti alla frenesia di un guardiano di stabile, abituato a cacciare la combriccola di tanto in tanto, mulinando insulti e pietre. Lì, si consumavano partite da tregenda: dalle tre del pomeriggio alle otto di sera, concluse dal triplice fischio di richiamo delle circostanti finestre di casa (per fortuna non avevano inventato i cellulari). Andavamo allo Scipione e, al solo pronunciarlo, pareva l’Olimpico di Roma, con la voce di Nando Martellini in sottofondo.

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Lo Scipione. Il suono riempiva la bocca e gonfiava il petto. Una zona del campo si stringeva e l’altra si allargava, sicché gli attacchi risultavano dispari per tattica e opportunità. Le porte non avevano traversa, perciò si tirava basso per evitare contestazioni. I portieri di quegli anni furono draghi nei rasoterra. Ma già, di strada si parlava. Giocavamo anche sull’asfalto, prima della campanella della scuola. Oppure, in piazza Mario Francese. C’era una vecchia Simca che rantolava comicamente a ogni colpo sul paraurti. Prenderla a supersantosate diventò la moda di condivisa. All’alba del terzo ammaccone, il proprietario si incazzò davvero. Si precipitò al volo dal primo piano di un palazzo rosso e mise fine al malcostume con una rappresaglia degna della Ghestapo. Si giocava a piazza Europa, allo sfinimento. L’ultimo cadeva a terra, segnandosi le ginocchia. Correndo, ci piaceva bersagliare le macchine, i bar, i passanti. Un comportamento scostumato, intimo al nostro spirito di adolescenti degli anni Ottanta, tutti casa, catechismo e cross.

Perché è per questo, egregio signor sindaco – venendo alla vicenda recente – che i piccoli giocano per strada, per dire che sono vivi. Ed è per questo che ogni era ha la sua guerra del pallone, il suo conflitto tra grandi distratti e miniature in cerca di attenzione. Quale ordinanza potrà mai fermare la luce che brilla negli occhi dei ragazzi selvaggi? Può essere educata e punita nei suoi eccessi, non debellata.
Siamo cresciuti, dovremmo avere messo la testa a posto e deplorare la felicità che non chiede nulla, se non un po’ di strada e un po’ di fastidio arrecato al prossimo. Scusi, caro sindaco, non ce la facciamo. E’ che quel Super Santos ci ha ammaccato il cuore.

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08 Settembre 2013, 06:30

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