La lapide per dimenticare Giovanni e Paolo | Il 19 luglio e lo sfregio di piazza Magione

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19 Luglio 2014, 10:30

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Ora che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino giacciono con i loro corpi – una lapide è l’unico corpo che rimane ai morti per causa della giustizia – in mezzo ai rifiuti di una città smemorata, possiamo certificarlo: il cerchio si è chiuso, l’orrore è compiuto. Si svela finalmente il paradosso fin qui sotterraneo, nel contrappasso dell’anniversario di via D’Amelio. La Sicilia non ama e non ha mai amato i suoi giudici-martiri. Li ha coccolati per cattiva coscienza, per senso di colpa, per la retorica che tutto copre e per interesse. Li celebra il 23 maggio e il 19 luglio. Ma non li ama. Altrimenti non li lascerebbe marcire in una palude di munnizza nella piazza in cui Giovanni e Paolo giocarono da bambini, secondo mitologia e cronaca.

Piazza Magione – polmone popolare di Palermo – è il baraccone scintillante della fiera dell’illegalità, come raccontiamo in un servizio, tra abusivismi a vario titolo. L’illegalità rappresenta già una sconfessione di coloro che morirono per la giustizia, specie quando è reiterata e invasiva, tanto da assumere il tono di una consuetudine. Ma poi c’è il dettaglio in più che fornisce una indicazione precisa su tempi e persone: i tavolini apparecchiati intorno alla lapide dedicata a Giovanni Falcone, riciclata in luogo di bivacco e di ristoro. Come mangiare un piatto di pasta alla carbonara sull’altare maggiore di San Pietro, per sputacchiare fili di spaghetti intorno, ruttando. Come lasciare lattine, bottiglie e cartacce sul balcone dell’Angelus di Papa Francesco. E’ la stessa effrazione, il torto che si consuma sull’altare laico delle persone perbene.

Quel semplice monumento, in una terra che avesse cari i suoi normali eroi borghesi, dovrebbe costituire un punto di riflessione, di silenzio e di raccolta di pensieri congrui. Non è un richiamo alla tristezza per forza e comunque. Giovanni e Paolo si possono ricordare con la spaghettata, con le canzoni, con la birra, con i sorrisi e con la levità di una barzelletta, però a tempo debito e con la consapevolezza di farlo. Prima di diventare statue erano uomini in carne e ossa. Mangiavano. Amavano. Dormivano. Falcone sapeva esibire l’arma di un’ironia potente e sferzante, sotto la scorza del rigore. Borsellino possedeva il garbo della battuta cordiale. Scherzava spesso con gli angeli custodi della scorta. Celebri i suoi motti, come quando a un bravo cronista che gli poneva un quesito che aveva in sé la risposta, il giudice Paolo suggerì: “Lei ha ragione, il nero se non tinge, mascaria… (macchia)”. Erano palermitani con le stimmate della palermitanità, ma di quella palermitanità buona e rara che è grandezza di idee e sa trasformarsi in concretezza di rivoluzione. Solo che qui non c’è la gioia dell’affetto che si fa leggero, c’è la pesantezza della rimozione.

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E’ proprio il colpo d’occhio a offendere. La fisionomia in pietra del giudice Falcone – e quindi del giudice Borsellino, le esperienze estreme e comuni nel corso della vita sono simbiosi di memoria nell’ora della morte – ridotta a sasso irrilevante, ad appoggio, a cosa che è rifiuto tra i rifiuti e si può estirpare in una doppia modalità. Si può gettare via fisicamente, nel paesaggio di una città distrutta e bombardata, come la pietruzza che nessuno nota e che perde il senso del riconoscimento, del soprassalto dell’anima e della luce dell’intelligenza (le lapidi ci sono per questo, per attivare un processo mnemonico di crescita). Insieme alla pietra, si getta via il resto. Gli occhi, la bocca, la cravatta d’ordinanza, via D’Amelio, Capaci, tutte le lacrime siciliane versate in un’estate indimenticabile, tutte le lacrime siciliane essiccate, nelle successive estati aride che hanno vidimato l’assenza di ogni speranza, la latitanza di qualunque cambiamento.

L’oltraggio è l’icona stessa di un fallimento di cui, in fondo, siamo consapevoli. Falcone & Borsellino non sono mai veramente entrati nel diario intimo dei siciliani. Hanno fatto da marketing per l’antimafia di carriera. Hanno recitato, post mortem, da magnifici attori sullo sfondo di impegnatissime e redditizie fiction. Sono stati i capisaldi di un’industria dell’anniversario che si è trasformata in mercato e vende i santini agli angoli delle strade, per procacciare affari e celebrità ad alcuni fortunati vincitori. Sulla faccia opposta della luna, Borsellino & Falcone sono stati rimossi, calpestati, misconosciuti, perché troppo scomodi, portatori di una visione minoritaria, indici puntati contro il crocevia di menzogna della vita pubblica e dei commerci privati. Né sussiste alcuna contraddizione tra retorica e disfatta, tra belle parole e pessime azioni. La lapide sfregiata riassume in sé la dimenticanza e la sovrabbondanza, entrambe necessarie alla cancellazione. E’ il corpo di un sogno assassinato. L’arma del delitto, il movente, l’occasione: non manca nulla. Nessuno può dirsi innocente, perché siamo tutti colpevoli. Non resta che confessarlo oggi, nel giorno di Paolo Borsellino.

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19 Luglio 2014, 10:30

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