23 Luglio 2017, 16:17
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PALERMO- Un aeroplanino nell’azzurro terso. Luminoso e leggero, come appena sospinto dall’alito di un bambino, affacciato alla finestra sopra una piazza grande e alberata. Questa è l’immagine che, per le misteriose alchimie delle libere associazioni, si staglia e prende corpo, chiacchierando con il maestro Ignazio Garsia. Un aeroplanino di carta che plana nel cielo sopra Palermo, trasportato dal vento della passione, della famiglia e del jazz.
Perché andarlo a trovare, nel suo rifugio del Real Teatro Santa Cecilia, questo musicista, creatore di prospettive generose, questo pioniere di percorsi e di strade che prima di lui non erano state battute – inventore del The Brass Group e tanto di più – questo ragazzo con i capelli sale e pepe che, in Svezia, capì che era proprio il jazz – il jazz e niente altro – il destino che avrebbe voluto per sé e per la sua città? Perché raccontarne la storia è un esercizio di bellezza, forse necessario, in tempi di stonature che non compongono armonia.
“Come ho cominciato a suonare? Abitavamo in via Roma, mio padre era un commerciante di tessuti. All’epoca, il pianoforte era parte dell’educazione femminile, era considerato un elemento che non poteva mancare. Le mie sorelle facevano pratica, grazie a un maestro che lavorava su transatlantici scintillanti, un vero e proprio pianista sull’oceano ante litteram. Nel salone troneggiava un ottimo strumento musicale che mia zia Tilde, soprano, ci aveva regalato per comprarne uno a coda, più grande. Io ascoltavo le scale, gli accordi, gli esercizi. Poi, mi sedevo sullo sgabello e strimpellavo qualcosa. Avevo sei anni. A poco a poco, grazie anche alle insistenze della zia che aveva capito che possedevo orecchio, pure io fui ammesso alla disciplina del maestro Taibi. Più in là, iniziai il conservatorio e lì scoprii il mio amore per quelle note nuove che tutti chiamavano jazz”.
Il Brass Group di Palermo – con la sua storia gloriosa di concerti, di cultura e di innovazione – era ancora di là da venire. Il fotogramma dell’amarcord, al momento, è fissato su una scena in bianco e nero, una di quello svolte che cambiano, per sempre, il solfeggio di un’esistenza.
“A sedici anni già viaggiavo per l’Europa. Tanti artisti palermitani girovaghi mi chiamavano perché avevano bisogno di un pianista di ‘buona lettura’, cioè di uno che leggeva le note e suonava subito, senza starci a pensare, perché negli spettacoli si deve andare veloci. A Stoccolma ascoltai la musica dell’orchestra di Woody Hermann. La scintilla scattò lì, quello era il suono che volevo e che volevo fare, quella era la colonna sonora del Novecento. Tornai a casa, convinto del mio innamoramento”.
E ci sarebbe stato l’altro innamoramento, l’amore, quello vero. “Amavo e amo Donatella, la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. Suo padre, il mio futuro suocero, non voleva saperne di me. A sua figlia intimava: ‘Non sarai mai la sposa di un artistoide matto’. Staccava i telefoni, le inibiva la mia presenza. Insomma, ci inventammo la classica ‘fuiuta’. Il grande Salvo Licata che mi conosceva, perché accompagnavo al pianoforte il suo cabaret dei ‘Travaglini’, mi aiutò, fu un papà premuroso per noi. Ci mise a disposizione il suo rifugio, il suo letto matrimoniale, addirittura. Un periodo indimenticabile. Infine, fummo perdonati e io accettato. Questo è il cammino della mia famiglia, della mia esistenza con una donna che mi ha sempre sostenuto nelle mie scelte più ardite e strampalate. Certo, quando ha scoperto che, per restare qui, avevo rifiutato le offerte dei conservatori di tutta Italia che mi cercavano per assumermi, ero primo nella graduatoria nazionale, si è un po’ arrabbiata. Ma io sono così, uno fuori dagli schemi, e non mi piacerebbe specchiarmi in nessun altro riflesso”.
Volli, fortissimamente volli, niente altro che il jazz. Le prime esperienze annotano una scapigliata temerarietà. “Affittammo uno scantinato in via Duca della Verdura che sarebbe stato ricoperto di fama, Fu l’inizio della Brass Group Big Band, adesso Orchestra Jazz Siciliana. Chi poteva, lasciava un contributo. La gente si metteva in fila per sentirci e noi invitammo ospiti illustri, i nomi più belli sul panorama internazionale. Tra i jazzisti non manca mai la solidarietà. Ora, in quel luogo, c’è un deposito. Io agognavo che Palermo producesse la sua cultura – e lo voglio ancora – nelle sue indubbie capacità, nel suo talento per il jazz. Ora, sicuramente, tanta incoscienza non sarebbe premiata. Le persone non arrivano a metà del mese, nessuno può dare più niente e nessuno riesce più a sognare. E c’è magari chi vorrebbe privarci della nostra unicità. Eppure, togliere i sogni a un uomo è come ucciderlo, levandogli il sangue”.
E venne una stagione di lotte, di concerti improvvisati, con le catene ai piedi e un pianoforte a coda, nello spiazzale dei palazzi del potere: notizie celebri, rimasticate dalla cronaca. Ignazio Garsia ricorda: “Perché quella musica non doveva essere riconosciuta, col sostegno delle istituzioni? Perché ai giovani dovrebbe essere impedito di conoscerla e di sperimentarla. Se andiamo in ospedale, ci aspettiamo che ci siano tutti i reparti. Troveremmo normale una struttura sanitaria con la cardiologia e senza l’ortopedia? Ma perché, mi domandavo? Era necessario un posto in cui apprendere, con i suoi artisti, i suoi docenti e la sua sicurezza”.
Il calendario segna le date importanti. Nel 2006, la legge che riconosce il ‘The Brass Group’, nel 2010, l’assegnazione del Real Teatro Santa Cecilia per l’Orchestra Jazz Siciliana. Un tempio che, nella sua pancia screziata di tonalità e silenzi che precedono un verde assolo di tromba, nasconde tesori inestimabili per lo studioso e per l’appassionato. “A ottobre inaugureremo il museo del jazz, con tutte le partiture, dagli anni Settanta a oggi, digitalizzate. Offriamo la registrazione di ottocento ore di concerti, con le foto, grazie al compianto Luigi Giuliana, scomparso di recente, un’altra delle splendide anime che con Manlio Salerno e Gaspare Ferro hanno condiviso la fondazione. Inoltre, abbiamo siglato una convenzione col conservatorio ‘Vincenzo Bellini’ per una scuola di jazz ai giovani, con incontri che si terranno allo Spasimo. C’è già un calendario di corsi divisi in due tipologie: quelli propedeutici e quelli preaccademici. I primi prevedono cicli di avanzamento, lezioni individuali e un laboratorio. I secondi sono invece rivolti a chi deve fare l’esame d’accesso. Questo è il nostro futuro: trasmettere la bellezza che imparammo, affinché non muoia mai, non è la missione più nobile?”.
Ignazio Garsia chiude la chiacchierata con un punto interrogativo che è già una risposta, mentre scruta l’intervistatore con gli occhi mai cambiati del ragazzo che fu. E si alza, per il commiato da consumare in una galleria ombreggiata d’immortalità: c’è perfino Ol’ Blue Eyes Sinatra, sul muro di pietra, con la bocca socchiusa, quasi pare l’irruzione di un sussurrato “Moon river”.
Immagini che si confondono con le suggestioni sonore. Cartelloni epici, ottoni lucidati, facce e cuori di jazzisti, leggende di pianisti su Palermo, cieli per tutti gli aeroplanini che furono e che saranno. Perché l’alchimia della speranza non cambia mai, con i suoi ingredienti. Ci vuole un aeroplanino di carta da lanciare oltre una finestra inondata di luce, con l’incoscienza delle imprese impossibili. Conta il decollo, non l’atterraggio. Ma ci vuole soprattutto, all’altro capo dei sogni, un filo d’alito e di fede, il soffio stupefatto di un bambino.
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23 Luglio 2017, 16:17