01 Marzo 2011, 20:52
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di Gianfranco Marrone
Il ponte, artefatto umano che unisce spazi divisi per natura, ha sempre avuto un che di sacro. In guerra, i ponti si erigono e difendono, si conquistano e s’abbattono. In pace, li si usa per viaggi e commerci. Nella Roma antica il pontefice è qualcuno che costruisce e custodisce ponti, personaggio talmente importante da assumere il ruolo di capo religioso.
Se non si tiene a mente questo pedigree al tempo stesso storico e politico non si capisce bene la vicenda del Ponte per antonomasia: quello che, unendo Sicilia e Calabria, farebbe le nostre sorti magnifiche e progressive. Lo ha capito perfettamente Aurelio Angelini, che in un bel libro recente intitolato appunto Il mitico Ponte sullo stretto di Messina, ne parla come di un oggetto mitologico. Questa prerogativa, permettendo di collegare passato e presente, fantasiose leggende e progetti faraonici, svela l’ideologia sottostante a questa entità immaginaria che tanto incide sulla nostra vita materiale, a questo simbolo capace di produrre (e sperperare) tanto denaro senza nemmeno avere quel minimo sindacale che di solito si chiede a chiunque: esserci.
Il ponte, scopriamo, è mitico per più ragioni. È un’opera tanto immaginaria quanto titanica, che sfida le forze del territorio imponendo il dominio dell’uomo sulla natura: venti, smottamenti, falde acquifere sono nulla rispetto al quel gran popò di acciaio e cemento. È qualcosa che prova a risolvere su una dimensione fittizia le contraddizioni della nostra esperienza quotidiana: una struttura senza infrastrutture. È qualcosa che esiste soltanto perché se ne parla: da Colapesce a Scilla e Cariddi, da Omero e Petrarca sino a D’Arrigo, è tutto un fiorire di attraversamenti impossibili e sfide sovrumane. Così sono da intendere le pianificazioni dei nostri ingegneroni: frutti della fantasia. Checché ne dicano i nostri attuali pontefici.
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01 Marzo 2011, 20:52