La notte della speranza

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18 Maggio 2013, 01:55

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PALERMO- Nel tranquillo viavai del dolore, le parole più sincere sono scritte sul muro. Non saprai mai quali preghiere sono state esaudite e quali no. Non saprai mai quanto fa male la richiesta sospesa, inevasa, l’ex voto, la preghiera per la salvezza che non ha ricevuto un cenno. La rianimazione dell’ospedale Civico non è differente. Nei posti di confine, lì dove c’è un soldatino che lotta tra la vita e la morte, splendono muri bianchi, benedetti da tratti di penna. “Gesù, fai guarire mio nonno. Distruggi il germe nei suoi polmoni. Cos’è per te un miracolo, Gesù?”. E accanto uno spazio per eventuali repliche, un vuoto per una mano celeste, pregando che prima o poi tracci una firma, un avverbio, il segno della speranza.

E’ terribile parlare di speranza qui, dove il soldatino che lotta è un bimbo colpito nell’ultima porzione di sonno, il dormiveglia leggero che precede il risveglio, dal padre poliziotto con la sua pistola. E tanti vorrebbero capire, si chiedono perché, come se ci fosse una spiegazione per ciò che è successo, come se si potesse chiarire, discernere, pacificare, suturare la ferita. E invece l’unico miracolo è venire quaggiù a sperare. Speranza, fremito lucente ed estraneo nella notte del Civico: cosa opporre altrimenti quando comanda la disperazione?

Il bambino è in fin di vita. Era in fin di vita di mattina. Lo è stato lungo una giornata interminabile. Lo è ancora adesso, a mezzanotte. Dovremmo orientarci nella ricerca di una clamorosa guarigione? Non è vietato reclamare il prodigio. O forse viene naturale affidarsi a un suono diverso, a un sogno altrettanto clamoroso. E sperare – sì sperare – che ci sia qualcosa che accarezzi questa piccola anima bruciata all’alba. Qualcosa che la protegga e la consoli oltre ogni umanissima attesa.

Le scritte sul muro. Passaggi a livello. Segni d’interpunzione. Messaggi in bottiglia lanciati a coloro che vivono in un modo che non conosciamo dietro la porta chiusa. “Svegliati”, “Arruspigghiati”. Un’ambulanza disegnata. “Come farà il barbiere se non ti taglia la barba?”. Ogni angolo è rincorso da uno sbaffo di matita. Sempre rimangono gli slarghi lasciati ad asciugare per una risposta, hai visto mai. Chi sta di qua con l’amore ricatta chi sta di là. I parenti con gli occhi aperti vorrebbero schiudere le ciglia degli addormentati. Un diaframma, un portoncino separa gli uni dagli altri.

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C’è una macchina della polizia di vedetta. I colleghi dell’agente che ha sparato al bambino e infine si è ucciso hanno reagito con l’incredulità di chi si accorge a poco a poco che l’orrore potrebbe essere vero. I “non ci crediamo” si sono affievoliti sotto l’evidenza. E’ impossibile immaginare un padre che narrano allegro mentre estrae una pistola per fare fuoco alla testa di suo figlio. Si tende l’orecchio per acchiappare la connessione, l’indizio. E non si trova nulla.

Ci sono le donne da ospedale. Madri, figlie, compagne. Hanno abbandonato l’idea della seduzione per consegnarsi a una bellezza che non acceca, penetra. Mostrano le pupille stanche. Le borse sulle palpebre. Lo sguardo segnato. Una barella con un paziente seminudo transita attraverso il corridoio. Il chiacchiericcio non si interrompe. La signora delle pulizie alza un attimo la testa. Un attimo, appunto. Si rimette a lucidare con perizia il pavimento. E’ il viavai, la routine del dolore. Se lo respiri, se lo mastichi, se te lo sei scelto per mestiere, se ci convivi da troppo tempo, dai mesi che hanno reso abitudine lo strazio, non hai nemmeno più la forza per stancarti, urlando. Accetti la monotonia del corpo rotto. Un ragazzo canticchia. Giovani medici scherzano, senza malizia, senza cattiveria, senza la spocchia dei sani che visitano i malati. Ridono perché sono giovanissimi e stanno mangiando, incoraggiandosi, il pane secco di una carriera difficile. Non offendono. Alleggeriscono di un grammo la cappa.

Dov’è la famiglia? Dov’è la sorella? Dov’è la mamma? Dove sono i nonni? Li pensiamo, e non li vediamo, nel mondo nascosto della porta, accanto all’anima bruciata di un’alba, così leggera da essere amica del vento in un sonno che non comprendiamo. Ma possiamo sperare – sì sperare – che sia pieno di bellissimi sogni. Gesù, cos’è per te un bambino? Rispondi. Basta un’ombra di matita, sulla parte più bianca del muro.

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18 Maggio 2013, 01:55

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