La perquisizione del covo di Riina | Pignatone: “E’ una ferita aperta”

di

14 Gennaio 2016, 14:20

4 min di lettura

PALERMO – “Nessuno mi parlò della possibilità di catturare Provenzano a Mezzojuso il 31 ottobre del 1995. Nè il colonnello Riccio, nè l’allora maggiore Obinu. Seppi solo nel 2003 del cosiddetto mancato blitz leggendone dalle cronache di stampa e ne rimasi molto colpito. Tanto da decidere di fare una relazione di servizio al mio capo dell’epoca, Piero Grasso”. A raccontare di un’indagine a suo avviso per molti versi anomala è Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma, nel 1995 pm a Palermo. Il magistrato sta deponendo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, atto d’accusa a ex ufficiali del Ros, politici e mafiosi, in corso davanti alla corte d’assise di Palermo. E l’impunità di Provenzano, secondo gli inquirenti, sarebbe stato uno dei punti al centro del patto che pezzi dello Stato, proprio attraverso i carabinieri, e Cosa nostra avrebbero stretto negli anni delle stragi mafiose.

Fu Giancarlo Caselli, che allora guidava l’ufficio inquirente del capoluogo, a delegare a Pignatone l’inchiesta che avrebbe dovuto portare al capomafia corleonese nata dalle confidenze del boss Luigi Ilardo al colonnello della Dia Michele Riccio. Un filone investigativo ritenuto importante che presentò da subito, agli occhi di Pignatone, diverse peculiarità. “Caseli – ha raccontato – mi disse di non parlare a nessuno di questa inchiesta: nè ai pm, nè agli aggiunti, ma di riferire soltanto a lui. Era certamente una anomalia per me e non mi è mai più capitata”. “A differenza delle inchieste sui latitanti che eravamo abituati a fare a Palermo – ha raccontato il teste – e che si basavano in larga parte sulle intercettazioni, in questo caso al centro di tutto c’erano i contatti tra Riccio e Ilardo, di quest’ultimo, peraltro, non sapevo e non volevo sapere neppure l’identità, essendo una fonte dell’ufficiale”.

Articoli Correlati

“Riccio – ha proseguito Pignatone nella deposizione – veniva periodicamente a Palermo, allora era a Genova, incontrava il suo uomo e poi veniva da me ad aggiornarmi. In genere mi diceva che di lì a poco ci sarebbe stato un incontro con Provenzano e che era ottimista sulla cattura”. La Dia, secondo il teste, era riluttante a potenziare le intercettazioni. “Accampavano pretesti per non farle”, ha detto. Tanto che fu lo stesso Pignatone a un certo punto a pretendere che si mettessero sotto controllo alcune utenze. Il teste ha raccontato poi di avere ritrovato un appunto nel suo pc, datato 1 novembre 1995 e relativo al suo incontro con Riccio e Obinu. Nel frattempo Riccio dalla Dia era passato al Ros. “Cercai nel pc dopo avere appreso del mancato blitz – ha spiegato – e trovai l’appunto scritto il giorno dopo la presunta mancata cattura, quando vidi i due ufficiali. Nessuno dei due mi fece cenno all’episodio. Riccio si limitò a dirmi la storia dell’incontro imminente tra Ilardo e Provenzano e che avremmo preso il latitante entro Natale”. Ma il teste non fu molto colpito dall’ottimismo dell’ufficiale. “Non era la prima volta”, ha raccontato. Il filone investigativo nato dalle confidenze di Ilardo, che poi venne assassinato, e concentrato sui fiancheggiatori bagheresi di Provenzano, si “inaridì”, ha detto il magistrato, “e fui io stesso a chiedere l’archiviazione dell’inchiesta”. Anni dopo, l’11 aprile del 2006, fu proprio Pignatone, diventato aggiunto a Palermo nel frattempo, a coordinare l’inchiesta che portò all’arresto del boss di Cosa nostra.

Pignatone ha poi parlato della mancata perquisizione del covo di Riina: “Dal 1993 nessuno di noi in realtà ha mai chiuso la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina. Diciamo che è una ferita rimasta aperta. L’aspetto istituzionale è comunque una cosa diversa – ha aggiunto – Il Ros ha continuato e continua a svolgere indagini di alto profilo istituzionale”. Il riferimento, giunto al termine di una lunga testimonianza su una delle indagini che avrebbero dovuto portare alla cattura del boss Bernardo Provenzano, è alla vicenda della mancata perquisizione dell’ultimo covo del capomafia corleonese a cui seguì un duro scontro tra la Procura, diretta allora da Giancarlo Caselli, e i carabinieri del Ros che arrestarono il padrino ma non perquisirono la villa dove viveva con la famiglia. La vicenda è anche costata all’allora colonnello del Ros Mario Mori e all’ex capitano Sergio De Caprio un processo per favoreggiamento aggravato alla mafia, conclusosi con l’assoluzione. Fu la stessa Procura, peraltro, pur sottolineando i tanti punti oscuri della storia, a chiedere che i due venissero scagionati.

Pubblicato il

14 Gennaio 2016, 14:20

Condividi sui social