11 Agosto 2013, 06:15
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La pioggia d’estate – dice un’amica che coglie la dinamica – lascia profumo nell’aria. Non a Palermo, però. E’ vero, non a Palermo.
E’ come se si fosse sgretolata la crosta che ci sosteneva. Il rumore non si è sentito, perché eravamo impegnati a spararci fucilate, ma il crollo c’è stato. E siamo tutti precipitati nella voragine. Il segno della catastrofe lo coglie blandamente il naso, prima del resto. A Palermo c’è puzza. Non è tanto il cattivo odore a raccontare la portata della tragedia, vale per quello la nostra indifferenza. Abitiamo, camminiamo, respiriamo in un mondo brutto. Non ce ne accorgiamo. Più della puzza – direbbe il saggio, se solo ci fosse – fa paura la capacità di adeguamento, l’impossibilità di cogliere il dato evidente dell’orribile. La città non c’è più. Si decompone in una putrefazione di gelsomini, nella macerazione dei suoi antichi e ormai scomparsi profumi.
Non ci sono nemmeno i cittadini che potrebbero ricostruirla, partendo dall’urgenza e dall’indignazione. Siamo rassegnati, anche fisicamente. Cervello e cuore c’entrano fino a un certo punto. Sono altri gli organi che si adeguano, come le narici che mettono a verbale con sufficienza il fetore e non lampeggiano in rosso. Come combatti la puzza, se l’hai accettata, se è uno degli eventi della normalità?
Palermo sapeva di buono. Ognuno conserva memoria delle sue delizie. Per me l’essenza era quel miscuglio olfattivo che si creava nella notte del Festino. Sui balconi di Palazzo Butera, durante i fuochi, mangiavamo arancine al burro appena pescate. La misura dell’arancina, nel palato, si confondeva col richiamo dei fiori. Tutto era bellissimo.
I fiori sono sempre stati migliori delle persone. Ancora oggi, nella desolazione di Mondello, quando è proprio buio, ti afferrano certe aspersioni di zagara e gelsomino. Un caso raro destinato all’estinzione. Palermo puzza.
Puzza il mare di Mondello che esibisce da tempo un colore inquietante. Non più mare, vasca da bagno, stagno sporco per papere sudicie. Ci lanciamo, in mancanza di alternative, nella superficie di un cadavere acquatico. Nuotiamo. Ridiamo anche. Poi ci asciughiamo. Percorriamo viali ricolmi di immondizia. Non è difficile intravvedere qualche topo sfortunato passato a miglior vita: perfino i topi palermitani rappresentano la disgrazia e la vergogna della loro razza. Rientriamo verso la macchina, schivando con i sandali escrementi e cartacce. Non ce n’è uno che urli. Non ce n’è uno che batta i piedi e gridi: “Bastaaaaaa!”. Almeno per farsi sentire. Forse ci vorrebbe il primo urlo, la prima pietruzza della rivoluzione. E verrebbe giù una valanga di dolore e di risentimento.
O forse sarebbero sufficienti dei piccoli, residuali, gesti di normalità. L’altra sera c’era il balletto russo al ‘Verdura’. Musica registrata, ballerini volenterosi e bravi, con qualche breve limite. Ma tutto era perdonato dai nostri sguardi di indigeni al cospetto delle perline colorate. Le movenze della ‘Bella addormentata’ sulle macerie affascinavano. La storia di una fanciulla colpita dalla maledizione di un arcolaio, baciata dal principe, risvegliata, affinché la favola finisse in gloria, attirava per vicinanza. Era Russia, ma parlava di noi. Troppo immediato, per non essere colto, l’accostamento per via di metafora con la speranza del nostro risveglio. C’era il sindaco di Palermo con la famiglia. E pareva davvero di stare in famiglia. Il sindaco con la camicia blu, i cittadini, la gente. Non un semplice balletto, la figurazione di un sogno, in un clima domestico, affettivamente impagabile. Poi siamo usciti nel traffico. L’incanto si è spezzato. La strega vince nella realtà, lasciandoci l’illusione.
Le strade sono percorse da automi in canottiera, sotto la canicola, attorniati da bambini vocianti. La sofferenza si coglie nella facce sudate, nei lineamenti che spiegano la mutazione dentro il peggio. Il sudore, la folla di Mondello, le deiezioni canine. Se il naso si risvegliasse come la bella addormentata saprebbe le ragioni del disastro. E noi capiremmo che i cuccioli sepolti, le fucilate, queste follie della cronaca, sono conseguenza della puzza. Che non viene né dall’alto né dal basso, né da fuori, né da su, né da giù. E’ il distillato di anni di rassegnata abitudine. La puzza siamo noi. Chi bacerà Palermo addormentata, mentre la strega ride?
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11 Agosto 2013, 06:15