17 Novembre 2010, 12:41
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La soluzione era a portata. Per spazzare mafia e massoneria deviata dalla pubblica amministrazione un’autocertificazione è sufficiente, o almeno così ritiene la Regione. Giovanni Bologna è uno dei più navigati e abili dirigenti della Regione, ma fra le qualità di cui dispone quella che certamente meno gli fa difetto è la fiducia nel prossimo: l’8 novembre, infatti, il direttore generale del dipartimento Funzione pubblica ha spedito a tutti i dirigenti della Regione una lettera che li invita a sottoporre ai dipendenti un semplice questionario in tre punti. È la seconda domanda, quella che colpisce: il personale che dipende da Palazzo d’Orléans, in sintesi, dovrà autocertificare “di avere o non avere aderito ad associazioni od organizzazioni, anche di carattere non riservato”. Dalla bocciofila a Cosa nostra.
Bologna, in realtà, non fa altro che applicare il Codice antimafia voluto dal governo. Un documento varato il 24 novembre dell’anno scorso dalla giunta dopo che una commissione, presieduta dall’ex procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, ha studiato i criteri da indicare alla pubblica amministrazione per garantirle trasparenza. Fra questi, all’articolo 11, anche la richiesta di autocertificazione partita la settimana scorsa, prevista esplicitamente in questi termini dal Codice.
Le altre due domande riguardano le collaborazioni esterne. In altre parole i dipendenti regionali dovranno dichiarare “rapporti di collaborazione, in qualunque forma retribuiti, svolti nell’ultimo quinquennio e se sussistono ancora rapporti di natura finanziaria o patrimoniale con il soggetto per il quale la collaborazione è stata prestata” e se “le persone conviventi svolgono o non svolgono attività professionali ed economiche”. Insomma, i dipendenti dovranno dichiarare in anticipo gli interessi che possono rendere meno trasparente la loro azione.
Il punto centrale, però, è la dichiarazione di appartenenza ad associazioni segrete o meno. I dipendenti regionali dovranno rispondere alla richiesta di Bologna inviando una mail a due indirizzi di posta elettronica, quello del servizio Trasparenza e quello del servizio Gestione giuridica del personale, in tempi che la Regione non indica. Così, i mafiosi infiltrati nelle stanze della Regione, una volta scoperti, potrebbero trovarsi di fronte all’accusa di “falsa sottoscrizione di atto pubblico”, punita con la reclusione fino a due anni. Un rischio che, senza dubbio, farà gelare loro il sangue.
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17 Novembre 2010, 12:41