27 Aprile 2014, 08:10
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“L’amore è inventare l’altro con tutta la nostra fantasia e con tutte le nostre forze, senza cedere di un millimetro alla realtà”. Il rapporto dei palermitani per la propria città sfugge ad ogni possibilità di comprensione, ma forse l’interpretazione dell’amore che ci offre Carofiglio può aiutarci a decifrare questo legame così profondo, irrazionale, viscerale di cui l’oltraggio alla statua di Ruggero Settimo costituisce una perfetta metafora. Esso non rappresenta soltanto un episodio di quotidiano vandalismo cui un Comune distratto dalle molteplici problematiche cittadine ha pensato di porre rimedio in modo grottesco, ma la definitiva resa di una città chiamata a difendersi dai propri cittadini.
Quella rete metallica, quella gabbia, segna un distacco fisico, materiale, che richiama ad una frattura ben più profonda tra lo spirito antico e nobile di una città ed i suoi abitanti che di esso sembrano voler cancellare ogni traccia. E’ il simulacro della Palermo immaginata, di una città celebrata nella liturgica rappresentazione messa in scena da chi vive nel ricordo di ciò che è stata a dispetto di come oggi si offre al mondo: una bellezza tradita, dimentica del fascino gitano, talvolta selvaggio, che ne animava lo spirito ribelle.
Quella ragazza dalle vesti colorate e dai ciondoli tintinnanti, inebriata dalle note di antiche danze all’ombra dei palazzi o tra i vicoli bui e maleodoranti, al contempo espressione della raffinatezza nobiliare e della sua anima più intensa e popolare, è stata troppo a lungo oltraggiata. Oggi si mostra come un’attempata signora cui il belletto non riesce a nascondere le ferite inferte dal tempo e dall’incuria che ne hanno segnato l’aspetto in uno struggente richiamo ad fascino non soltanto svanito ma rubato, saccheggiato, vilipeso. Adesso, attorniata da novelli cicisbei che in rituale stanco e vuoto ne elogiano doti ormai svanite, volteggia stancamente in noiose serate di gala nel vano tentativo di rievocare i fasti del passato tra le pieghe di un presente che esprime soltanto inquieta rassegnazione.
Eppure basta poco a risvegliare un sentimentalismo adulatore in questi amanti crudeli pronti ad intonare sonetti ispirati ad un sentimento mai dimenticato a dispetto dei numerosi tradimenti. Come un compagno fedifrago nuovamente pentito, tornano a promettere un amore ancora più intenso, maturato dal cedimento alla tentazione in un rigurgito di coscienza ipocrita e falso. E’ sufficiente un raggio di sole che squarcia le nuvole e rinnova la promessa d’estate oppure un tramonto che si tuffa nel mare offrendo conforto agli affanni quotidiani o che timidamente si accuccia sui tetti a rassicurare su un domani migliore.
Puntualmente si torna a celebrare la Palermo del 23 maggio e del 19 luglio; la città della memoria, del sangue, del dolore, delle stragi, delle battaglie di cui tutti, indistintamente, si sentono eredi spirituali almeno per un giorno, salvo battere in ritirata per il resto dell’anno al riparo da ogni impegno concreto. C’è chi si illude di amare questa città ancor più intensamente nella stoica accettazione dei suoi difetti, bisognoso di mettere alla prova un amore privo di tentennamenti. C’è la Palermo immaginata nel ricordo offuscato dalle lacrime di chi è stato costretto ad abbandonarla, il forzato distacco ne alimenta un ricordo edulcorato e commosso ogni qual volta si scopre incapace di accettare l’idea di rinunciare a ciò che di magico Palermo talora sa offrire. Ma c’è anche la Palermo che riflette l’egoismo di chi, per amarla, deve oltraggiarla, umiliarla, sottometterla; renderla inferiore per sentirla più vicina.
Una considerazione di sé maturata nella consapevolezza di essere inadeguato a meritarne la potenziale grandezza, impone di svilirla per non esserne rifiutato; di sporcarne le vesti fino a smarrire il ricordo dei suoi colori più vivi ed intensi; di costringerla ad indossare un’armatura che ne nascondono gli ultimi tratti di bellezza. E’ sentimento ugualmente forte, intenso, egoista, autoreferenziale: un subdolo alibi per imporre l’accettazione della propria condizione di cittadino imbarbarito ad una città che a tal fine viene offesa, ferita nel corpo e nell’anima, Ma forse, parafrasando Dicker, l’amore è anche sperare che un giorno le cose migliorino.
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27 Aprile 2014, 08:10