20 Aprile 2014, 09:25
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Questa è la storia di Valeria, una donna morta e rinata più volte. Una donna la cui vita sembra averla punita e calpestata senza alcuna pietà. Perché la vita è così, a volte. Non è dolce e neppure amara. È soltanto spietata.
La sua storia comincia quando lei è ancora una bambina con i capelli biondi e il sorriso timido. Conosce presto il sapore straziante dell’abbandono. Lo scopre quando suo padre va via di casa. Lei osserva la madre che non smette di piangere. Ascolta il silenzio che di colpo aleggia in casa, ma inghiotte le lacrime per confortare e proteggere suo fratello più piccolo, Riccardo, un bambino di 11 anni. Lo tiene tra le braccia durante la notte, gli dice di non avere paura, e che le cose cambieranno in meglio. Ma Valeria non può immaginare che quelli sono gli ultimi abbracci che si scambiano. Pochi mesi dopo Riccardo si ammala. Una di quelle malattie fulminee, veloci. Che non danno scampo. Non c’è posto per la speranza. Riccardo vola via in una mattina di settembre.
Valeria cresce con paura. Diventa grande, ma è una donna già stanca. Un giorno incontra l’amore. Si chiama Roberto. E insieme a lui ritrova la voglia di vivere. Il primo e unico figlio arriva tardi, dopo interminabili cure. Valeria lo chiama Angelo. “Perché è nato dalla mia preghiera”, dice. E Angelo lo è davvero: ha i capelli biondi, come i suoi, e gli occhi azzurri. Valeria per un attimo è felice. “Mi dicevo che c’è sempre un domani – racconta – e che la vita doveva offrirmi un’altra possibilità, ma evidentemente mi sono sbagliata”.
Una mattina il telefono suona impazzito. Una voce sconosciuta le dice che suo marito ha avuto un infarto. Che deve correre subito in ospedale. “In quel momento pregavo Dio – dice – e pensavo che se avessi saputo che quella poteva essere l’ultima mattina che lo vedevo uscire dalla porta di casa, gli avrei detto ti amo così tante volte da non farlo più andare via”. I ricordi sono confusi. L’attesa lungo il corridoio. Le domande confuse. Le lacrime. Poi il medico che esce dalla sala di rianimazione. Il volto contratto. Lo sguardo fermo. Infine, una frase asciutta. Lapidaria. Roberto non ce la fa.
Da quel momento, Valeria si rimbocca le maniche. Lo fa per suo figlio Angelo che intanto cresce e diventa un piccolo uomo. “Lui si sentiva responsabile del mio sorriso”, racconta. Ne parla al passato perché anche Angelo oggi non c’è più. “Un giorno mi disse che non voleva andare a scuola, che non si sentiva bene, ma io pensai fosse una scusa e lo obbligai ad uscire. Prima di andare via, mi rivolse un sorriso stizzito”. Fuori piove, Angelo perde il controllo dello scooter, sbanda, va fuori strada. È un attimo. “Si può sopravvivere a tutto – dice Valeria – ma non alla scomparsa di un figlio. Quel giorno sono morta anch’io. E ho coltivato un senso di colpa che mi ha ucciso dentro”.
Dopo un mese, i medici le diagnosticano un tumore al seno. “Quando il medico mi ha dato l’esito dell’esame, sono rimasta pietrificata. Non me ne importava nulla. Non sentivo niente, nessun dolore”. Valeria si chiude in casa. Smette di vivere. I pochi parenti che le sono rimasti attorno, la esortano a curarsi. Ma lei non vuole. Si imbottisce di calmanti e antidepressivi. I giorni scorrono lenti. Una mattina, Valeria accompagna un’amica in un centro di accoglienza per bambini senza famiglia. Ce ne sono tanti, ma i suoi occhi si soffermano sul volto di un bambino di otto anni. È piccolo, magro, pallido. Si avvicina a lui, gli chiede il nome. “Angelo”, risponde il bambino. Valeria prova un lungo brivido. Il suono di quel nome la scuote dal torpore. “Ho pensato subito a mio figlio – dice – ho immaginato che fosse lì, davanti a me, per esortarmi ad andare avanti”.
Valeria decide di operarsi. Inizia un lungo calvario fatto di cure interminabili. Il male regredisce. Il suo corpo lentamente torna a vivere. Valeria oggi è una donna che dosa le parole. Non ha più voglia di parlare. Il suo sguardo è spento, ma ogni tanto sorride. Dice che è tranquilla soltanto la notte, quando dorme. Forse perché nel sonno ci costruiamo una nicchia protetta. Forse perché nel silenzio, ritroviamo i nostri affetti più cari. Lei li vede tutti. Vede suo fratello, suo marito, e Angelo, quel figlio che le è stato strappato troppo presto.
Oggi Valeria è guarita, ha cinquant’anni, vive con sua madre, e si prende cura dei bambini venuti al mondo con ferite già profonde. Ogni fine settimana le viene concesso di prendere in affidamento Angelo. “Ci sono storie che restano in silenzio, nascoste all’ombra e che raccontano di una vita consumata tra ferite e abbandoni – dice – come la storia di questi bambini che, nonostante tutto, non smettono mai di credere al domani”. Lei non ci crede più, al domani. Sa che il domani non è certo per nessuno. Ma quando sta vicino ad Angelo, il bambino rimasto senza famiglia, per un attimo dimentica cosa sia la paura.
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20 Aprile 2014, 09:25