La ricostruzione dell’antimafia | e l’economia della mafia

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27 Aprile 2014, 07:56

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Si va dipanando, in questi giorni, un dibattito interessante sullo stato dell’antimafia in Sicilia. Innescato da un abusato richiamo a credenziali antimafiose nella politica, soprattutto a livello regionale, alla non unanimità sul carattere giuridico della trattativa stato-mafia e, ultimo, ma non ultimo, alle diverse posizioni in merito alla riscrittura del reato di voto di scambio politico mafioso. Un dibattito necessario ed opportuno. Che fa chiarezza sulla Babilonia antimafia (Buttafuoco), l’antimafia dei traditori e dei carrieristi (Foresta), il circo Barnum dell’antimafia (Cracolici), provando a chiarire meglio il sentimento autentico nutrito dai siciliani contro la mafia. Una ricostruzione invocata dell’antimafia, insomma (Visconti).

Sembra però poco presente in questo dibattito, un tema importante. Tra le contraddizioni dell’antimafia, la mafia (meglio Cosa Nostra) persiste (e come) nel condizionare lo sviluppo dell’economia siciliana, la libertà del mercato, la voglia di impresa? Continua tuttora ad essere una condizione preliminare negativa per i suoi rapporti con il sistema produttivo, tanto da espellere aziende e scoraggiare il sorgere di altre? E l’antimafia, nelle sue varie declinazioni, come contrasta questi fenomeni?

Se è cambiata la mafia, afferma Morosini (uno dei pochi ad aver affrontato questo profilo della questione) l’antimafia ha l’obbligo di adeguarsi per rendere efficace il contrasto ad un’organizzazione che uccide quando non ne può proprio fare a meno ma che intanto fa girare denaro, compra, utilizza le proprie ricchezze illecite con oculatezza e professionalità, realizzando investimenti che costituiscono macchine sociali potentissime. Meccanismi che, parla ancora Morosini, Gip al Tribunale di Palermo, in tempi di crisi muovono l’economia, creano lavoro, consenso. Producendo nuovi adepti, nuovi affiliati, nuovi “concorrenti esterni”. Assicurando lunga vita ad un’associazione criminale a torto data per spacciata (“L’antimafia deve cambiare. Serve più pluralismo e basta con i tabù”, G.D.S, 20 Aprile 2014).

Conosciamo da tempo le attività proprie delle associazioni mafiose che inquinano il finanziamento di una normale attività imprenditoriale: estorsioni, usura, corruzione delle gare d’appalto, commercio di droga. La crisi, a quanto pare, ha ridotto per forza di cose il fatturato delle estorsioni. Sul commercio di droga, oltre il territorio siciliano, Cosa Nostra sembra aver perduto un ruolo dominante. La riduzione degli appalti offre poche occasioni di partecipazione. Restano comunque “lavori in corso” ben definiti. Primi tra tutti quelli relativi allo smaltimento dei rifiuti. Attività non particolarmente complessa ma sostanzialmente fuori da ogni controllo. Vietata ma prorogata nei suoi modelli organizzativi (discariche). Svolta in condizioni di oligopolio. Stiamo ovviamente generalizzando, ma fra riferimenti veri e procedimenti giudiziari in corso, la nostra generalizzazione non è lontana dalla realtà. Altre aree di interesse: energia alternativa, sanità, agricoltura, trasporti, cave, grande distribuzione.

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Ora, si può chiedere alla nuova antimafia di contribuire, con la magistratura e le forze dell’ordine, ad accendere i riflettori, permanentemente e senza intermittenza di strani silenzi, su queste attività? Richiesta da estendere anche alle organizzazioni (dalla Confindustria ad Addiopizzo) che si occupano con merito di difendere l’economia siciliana da inquinamenti mafiosi. Ma che intervengono, e non potrebbe essere altrimenti, per assistere a processi di vittimizzazione più che prevenirli (si veda l’interessante iniziativa di un desk antiracket decisa da Confindustria Sicilia). Sarebbe davvero tragico se persi in polemiche che ricordano fatti passati, contese personali, dispute ideologiche e dottrinarie, ci dimenticassimo della corrosione provocata dalla mafia sulla economia.

Proviamo a interrogare un giovane che voglia intraprendere un’attività economica. Quali sono i fattori di scoraggiamento se non, primo tra i tanti, la paura di ritrovarsi al centro di attenzioni mafiose? Fattori di scoraggiamento che incidono sull’attrazione delle imprese esterne, sulle aspettative che condizionano ampliamenti, innovazioni, diversificazioni di attività. In altre parole, sull’occupazione. Riannodiamo i fili del discorso. Abbiamo la sensazione che in questi ultimi anni l’antimafia abbia finito col privilegiare soggetti più che azioni, politici più che attività giudiziarie, ideologie più che un sentire collettivo. Ci chiediamo, per esempio, come questa frammentazione incida su uno dei capitoli più importanti della lotta alla mafia, i progetti educativi che si svolgono nelle scuole, recentemente finanziati con una cifra simbolica rispetto ad altri finanziamenti puramente “ad personam” (100mila euro). O come questa frammentazione venga avvertita da ambienti nazionali convinti dell’irredimibilità della Sicilia dalla quale conviene tenersi lontani per paura del contagio.

E’ un fatto che la mafia si sia insinuata dovunque, che la crisi amplifichi paradossalmente il suo raggio d’azione e che produca effetti nefasti sull’economia. Parlare di legalità e sviluppo –sottolineiamo a chiare lettere- è una ripetizione di termini perché lo sviluppo è di per sé legalità. Semmai si potrebbe invocare una crescita (di per sé non legata a fattori etici) nella legalità. Alla rifondazione dell’antimafia può servire anche una svolta semantica, ed è ora di modificare radicalmente alcuni slogan. Infine, ci si attenderebbe che anche la Chiesa prendesse posizione, e che partecipasse, con sostanziali innovazioni nelle sue pratiche, alla rifondazione dell’antimafia. La linea della palma, della quale parlava Sciascia, è avanzata ed ormai percorre anche paesi europei. Mentre noi litighiamo su chi può vantare il trofeo di antimafioso, la mafia continua a fare affari e a distorcere il mercato. Forse la nuova antimafia dovrebbe meno alludere e più dimostrare.

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27 Aprile 2014, 07:56

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