11 Febbraio 2024, 06:45
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Con la legge 56 nel 2014 (legge Delrio) il Parlamento è intervenuto sull’ordinamento delle Province, da una parte definendole quali enti di “area vasta”, sede di raccordo degli interessi dei comuni della zona, dall’altra prevedendo l’elezione dei suoi rappresentanti non più tramite consultazioni popolari ma dai sindaci dell’area geografica di riferimento e tra gli stessi. La legge, emanata in attesa dell’attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione (avvenuta nel 2001 ed, ancora, dopo 23 anni non del tutto compiuta), non ha contemplato l’abolizione totale delle province; questa fu prevista nel progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi venuto meno a seguito della sua bocciatura popolare.
La Sicilia, invece, nello stesso anno ha soppresso le nove province sostituendole con Liberi consorzi di comuni e con le Città metropolitane di Palermo, Catania e Messina. A differenza di quanto previsto per le regioni a statuto ordinario, dunque, in Sicilia l’ente intermedio esiste solo come modello consortile i cui vertici avrebbero dovuto essere eletti dagli amministratori dei comuni componenti il consorzio. Il condizionale è d’obbligo, in quanto le nomine non sono mai avvenute e tutt’oggi vi è una gestione di natura commissariale.
Obiettivo della riforma era quello di ridurre i costi e sostituire enti considerati poco utili con altri più efficienti. E’ opinione comune come il tentativo non sia andato a buon fine. La riforma regionale, in particolare, ha affidato nuove funzioni ai liberi consorzi senza attribuire loro le risorse per finanziarle, rimandando l’individuazione delle entrate necessarie a provvedimenti successivi. La previsione del metodo di elezione di secondo livello ha, inoltre, reso meno comprensibili per il cittadino le dinamiche istituzionali del nuovo ente: individuare con chiarezza a chi attribuire le responsabilità politiche è uno dei cardini del sistema democratico. Con l’elezione diretta, il sistema politico delle Province era assimilabile a quello dei comuni: un presidente eletto dal popolo con una maggioranza a sostegno in consiglio, una giunta formata dai membri della maggioranza, la minoranza all’opposizione. Oggi, invece, il sistema si muove su logiche differenti.
Il quadro descritto restituisce, effettivamente, una sensazione di incompiuto e di qualcosa che non ha raggiunto gli obiettivi prefissati. Tanto che da più parti, sia a livello nazionale che locale, si auspica una seconda vita per le Province. In Sicilia, l’occasione di una loro reviviscenza si è avuta appena qualche giorno fa, ma l’Ars ha bocciato il ritorno al passato respingendo il disegno di legge sul loro ripristino con 40 voti contrari su 25 favorevoli.
Non si vogliono contestare in questa sede le ragioni dell’impostazione contraria, né di quella a favore. La dialettica parlamentare è l’essenza della democrazia rappresentativa; è proprio grazie al confronto che la società progredisce. Neppure si vuole sindacare il fenomeno dei franchi tiratori, piuttosto diffuso nella politica italiana, che avrebbe persino una sua nobiltà se ci si discostasse dalla linea del partito esclusivamente per esercitare la propria libertà di coscienza. Riguardo a quest’ultimo punto, ci si augura davvero che coloro che hanno contribuito alla debacle della legge sulle Province non l’abbiano fatto per ragioni che, invece, esulano dal mero convincimento politico sulla questione.
Fatte queste premesse, deve tristemente convenirsi che in Sicilia nelle ultime settimane non sono state scritte belle pagine di politica. Il valzer delle nomine dei direttori generali delle aziende sanitarie, lo scontro politico sulla norma salva-ineleggibili e, da ultimo, la bocciatura della legge sul ripristino delle Province, da taluni interpretata come diretta conseguenza del naufragato tentativo di salvataggio di parlamentari non eleggibili. Uno spettacolo francamente disarmante che contribuisce ad alimentare il senso di disaffezione dei cittadini alla politica (ed ai politici) e ad accrescerne il distacco, alimentando scetticismo o, peggio, rassegnazione.
Governare deve essere sinonimo di agire in concreto ed in profondità. Non soltanto spendere soldi e fare delle nomine. Non limitarsi a mettere pezze a provvedimenti di facciata. I rappresentanti sono eletti e pagati dai cittadini per occuparsi delle questioni della comunità ma, talvolta, essi mostrano un’evidente tendenza a dimenticare la loro condizione, appunto, di “nostri” rappresentanti. La politica è tradizionalmente mediazione, negoziazione e compromesso tra i differenti interessi. Ma ci sono delle fasi in cui diventa necessario che chi sta al potere indichi la rotta, orienti opinioni pubbliche confuse, stabilisca una possibile direzione di marcia. Si rende necessario, dunque, richiamare i politici a comportamenti più virtuosi.
Da dove cominciare la difficile, necessaria, rivoluzione? Certamente dall’uso consapevole dello strumento democratico per eccellenza: l’esercizio del diritto di voto, per mezzo del quale si ha la possibilità di scegliere, di preferire, di rifiutare, di decidere da chi farsi (o no) rappresentare. È così che si alimenta la democrazia, quella bellissima invenzione dei greci considerata come la migliore forma di governo possibile. Nostro dovere di cittadini è scongiurare il rischio che essa sia sempre meno partecipata, come è, invece, nei timori di Sabino Cassese. È poi indispensabile che i governanti agiscano con senso di responsabilità per andare oltre gli steccati ideologici e per ricomporre la frattura tra le parole che vengono spese e la reale volontà di cambiamento. A giugno si terranno le elezioni europee: è questa un’occasione in cui si può, si deve, sperare che il dibattito politico faccia un passo in avanti per la costruzione del bene comune e per l’affermazione di valori condivisi.
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11 Febbraio 2024, 06:45