La scalata di Cosa nostra alla focacceria| Storia di una ribellione a Palermo

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19 Novembre 2007, 12:00

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“Una storia semplice”, avrebbe probabilmente chiosato Leonardo Sciascia. Una ordinaria storia di mafia intrecciata al tessuto economico cittadino, esemplare nel rappresentare la pervasività dell’economia mafiosa in quella legale. Una vicenda pirandelliana in cui la tragedia fa puntualmente capolino, in cui i personaggi non sono mai quello che sembrano e recitano un canovaccio già predefinito, costruendo attorno alla vittima un alone di paura di cui sono soggetti e difensori allo stesso tempo. Ma anche un’avanguardia dell’attività di Cosa nostra proiettata nel nuovo millennio: la tentata scalata a uno dei locali storici di Palermo, rappresentativo dell’identità cittadina. Alla “Antica Focacceria San Francesco” anche Giuseppe Garibaldi si era fermato per gustare le specialità gastronomiche del capoluogo siciliano.

LA STORIA
Rapporti dei carabinieri indicano come con l’arresto di Tommaso Lo Presti e la latitanza di Antonino Lauricella (noto come “Ninu i scintilluni”), entrambi boss della famiglia di Palermo centro, sono cambiati i posteggiatori di tutto il mandamento. Ne è conscio Maurizio La Corte, da anni al servizio di Vincenzo Conticello (titolare della Focacceria), che svolgeva i compiti di sorveglianza degli arredi esterni e parcheggiatore. “Ci sono comandanti nuovi e io con questi non voglio averci a che fare perché sono pericolosi ed è preferibile che io mi metta da parte perché io non lo so che intenzioni hanno questi nei vostri confronti, sono persone con cui non ci si può parlare”, dice La Corte a Conticello prima di abbandonare il suo posto di lavoro. Passano solo due giorni (è il 25 novembre 2005) che Giovanni Di Salvo si presenta a nome di Ettore Seidita alla Focacceria, cerca Vincenzo Conticello, per dirgli “io sono quello a cui devi pagare invece di “Nino u scintilluni”. Conticello ha, infatti, ‘messo a posto’ il suo locale contribuendo alla raccolta fondi, effettuata da Lauricella, per le famiglie dei carcerati a Natale, con soldi e regali. Ma ora il boss non c’è più e a Conticello si chiede il pagamento della tassa mafiosa per 500 euro al mese. Ma non è tutto.

Per comprendere cosa abbia spinto Vincenzo Conticello a rivolgersi ai carabinieri del colonnello Tomasone, dobbiamo tornare indietro di 4 anni, a quel 2001 in cui l’imprenditore è costretto a scontare in carcere un ordinanza di custodia cautelare per reati finanziari. E in quell’occasione che entra in contatto con Vito Seidita, uno che in carcere ci sta, praticamente, da sempre. È lui a fargli da chioccia all’Ucciardone e Conticello per sdebitarsi, una volta fuori, assume la moglie di Seidita. Ma non basta. Così Conticello è indotto a prendere in prova lo stesso Seidita per consentirgli di uscire dal carcere. Siamo già al luglio del 2005 e comincia l’infiltrazione mafiosa nel locale di piazza San Francesco. In un pranzo dell’agosto dello stesso anno, nella stessa tavola si trovano Francolino Spadaro, lungo curriculum penale e figlio d’arte, con la famiglia insieme a Lorenzo D’Aleo, braccio destro del giovane boss. Seidita fa gli onori di casa. In quell’occasione Conticello viene portato nelle cucine e gli vengono imposte le forniture di latticini (azienda “La Casertana” della suocera di Spadaro) e di prodotti ittici (azienda “La Marittica” con cui Spadaro collabora). L’imposizione di forniture, secondo giurisprudenza corrente, è un vero e proprio pizzo. Probabilmente Conticello pensava che assumendo la moglie di Seidita, lo stesso Vito e accettando le forniture, la ‘messa a posto’ del suo locale sarebbe stata esaurita. Ma così non è stato.

Vito Seidita, alla fine del periodo di prova, viene allontanato dalla Focacceria. Lì dentro faceva il padrone e non svolgeva i compiti per cui era stato chiamato. L’inizio dell’incubo dei Conticello. Da questo punto, infatti, i contorni dei personaggi perdono consistenza e no si capisce più chi è amico, chi non lo è; chi compie gli atti intimidatori e chi vuole difendere i Conticello dagli stessi. Alla fine si scoprirà che attentatori e difensori sono le stesse persone. Gli unici personaggi che in questa storia non perdono mai la loro consistenza sono il maresciallo Michele Goscia, il colonnello Vittorio Tomasone e il tenente Massimiliano Bolis dei carabinieri. Il primo è quello che avverte Conticello, proprio prima che questi incontri Di Salvo, del personaggio che si troverà di fronte. Il secondo ha coordinato le operazioni. Il terzo ha condotto le indagini, filmando col proprio videofonino l’incontro della richiesta di estorsione.

Conticello si muove con difficoltà, svolge un doppio ruolo difficile da mantenere e, soprattutto, subisce la pressione mafiosa. Riceve una strana offerta da Antonella Bonanno di “Mi manda Picone”: 250 mila euro per la licenza dell’enoteca con sottolineatura che lei “aveva amici sia da una parte che dall’altra”. Tocca, poi, ai suoi dipendenti: una serratura forzata e un vetro rotto nelle loro auto. Seidita, a cui si rivolge Conticello, sempre più agitato, con aria paternalistica gli dice: “se ci fossi stato io…ma tu non mi hai voluto…parla con Spadaro”. L’ex posteggiatore: “parla con Spadaro”. Il sodalizio mafioso capisce che la loro “strategia della tensione” ha effetto e si passa al danneggiamento della stessa auto di Conticello (Vetri fracassati e altri danni) mentre lui era a casa sua. Alla fine non resta che incontrare Spadaro, indicato da tutti come colui che poteva sistemare la spirale di guai nella quale si era trovata la famiglia Conticello che continua ad offrire a Seidita un posto da posteggiatore che lo stesso non accetta. Voleva di più.

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E di più volevano tutti, molto di più. La mattina dell’incontro con Spadaro – era il 9 febbraio 2006 – nel parabrezza dell’auto, Conticello trova una lettera minacciosa e una richiesta: di 50 mila euro. Un altro avvertimento poco prima di incontrare il boss. Francolino Spadaro si fa trovare in un banco del pesce a Santa Flavia, nella costa palermitana. Flemmatico, con le mani in tasca, ascolta un sempre più agitato Conticello e gli ‘suggerisce’ di assumere, in via definitiva, Vito Seidita col quale poi se la sarebbero vista loro per la ‘messa a posto’ della focacceria. Per la somma richiesta la stessa mattina con la lettera è ancora tutto da vedere.

Conticello accetta il diktat, assume Seidita e chiede la riduzione della richiesta ricevuta con la missiva nel parabrezza. La trattativa, condotta dai suoi ‘amici’ Seidita e Di Salvo, porta la richiesta dagli originali 50 mila e 15 mila euro, anche a rate.

Troppo tardi. Conticello va all’estero e i carabinieri arrestano i protagonisti. I militari avevano seguito tutta la vicenda dal suo principio e gli inquirenti hanno potuto ricostruire il piano criminale: “l’insinuarsi, sfruttando la minaccia mafiosa, nell’attività economica, non solo con l’assunzione di personale ma anche con l’imposizione di fornitori”. La rete di paura, costruita ‘ad hoc’ dai personaggi della vicenda, li avrebbe portati a gestire la stessa Focacceria, un altro pezzo della storia cittadina in mano alla mafia.

LA SENTENZA
Il coraggio di Vincenzo Conticello, che aveva compreso di essere giunto al punto di non ritorno, di essere nei guai fino al collo, ha consentito l’arresto del sodalizio criminale che sconterà un totale di più di 48 anni per la tentata scalata alla Focacceria. Nel processo, durato un anno e mezzo, sono stato condannati: Francolino Spadaro a 16 anni di carcere, Giovanni Di Salvo a 14 anni, Lorenzo D’Aleo a 10 anni e sei mesi e Vito Seidita (che ha scelto il rito abbreviato che gli ha consentito uno sconto di pena) a otto anni. Condanne pesanti, esemplari, che risentono certamente di un clima cambiato in città, di un’aria nuova. In diverse udienza, in aula, al posto degli sguardi torvi dei parenti degli imputati (ad onor del vero sempre molto discreti), si sono visti pezzi di istituzioni (dal presidente dell’Antimafia, Francesco Forgione, a parlamentari nazionali e regionali), degli ordini professionali (camera penale e ordine degli avvocati), all’associazionismo antiracket (Tano Grasso, su tutti, ma anche la costituzione di parte civile di Sos Impresa e Confesercenti), fino agli attivisti del comitato Addiopizzo, presenti a più udienze e silenti di fronte a una sentenza che li ha riempiti di soddisfazione.

Una buona pratica che dimostra come con attraverso le denunce degli imprenditori il fenomeno del racket può essere vinto e si può sdoganare la libertà d’impresa in Sicilia.

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19 Novembre 2007, 12:00

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