La scuola sempre più rosa |Ma i motivi non sono felici - Live Sicilia

La scuola sempre più rosa |Ma i motivi non sono felici

Analisi di un fenomeno in crescita.

Nel leggere un inserto dedicato dal quotidiano cittadino agli istituti di istruzione superiore di Messina, un dato è balzato ai miei occhi: su dieci dirigenti scolastici, 8 sono donne. La novità non riguarda solo la città dello Stretto. Anche a Palermo le donne sono al vertice di un gran numero di istituti superiori, quali il liceo classico Garibaldi, l’internazionale Meli, il liceo scientifico Mursia, l’artistico Salvemini, l’I.I.S.S. Ascione, l’I.T.C.G. Duca Abruzzi conglobato all’ I.T.C. “Libero Grassi”, l’I.S.S. Einaudi-Pareto, e del liceo classico Scaduto di Bagheria. A Catania, sono donne la dirigente dello storico Cutelli, del liceo Spedalieri e del liceo scientifico Galilei; sono parimenti diretti da donne il liceo classico Gargallo di Siracusa e l’I.S.S. Umberto I- Tecnico Gagliardi di Ragusa; l’elenco potrebbe continuare.

Il fenomeno, che non è nuovo rispetto al mondo della scuola, anche se lo è rispetto ai gradi più alti delle carriere scolastiche, non si limita alla Sicilia.

Negli ultimi dieci anni la percentuale delle “cattedre rosa” è cresciuta in modo esponenziale. Le donne rappresentano l’83% dell’intero corpo docente. Una ricerca dell’OCSE dal titolo “Gender Imbalances in the Teaching Profession”, pubblicata nel febbraio 2017, dimostra come nei Paesi industrializzati si sia verificata la progressiva femminilizzazione della professione dell’insegnante. Il report “Uno sguardo sull’istruzione 2016”, che riprende i dati sulla struttura, il finanziamento e le prestazioni dei sistemi d’istruzione nei 35 Paesi dell’OCSE, rivela che in Italia otto docenti su dieci sono donne.

La disparità di presenza di genere aumenta con il decrescere del grado: secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, su 87.701 titolari di cattedra di scuola d’infanzia, vi sono solo 612 maschi, ovvero lo 0,7%. La percentuale di maschi sale al 3,6 per cento, su 245.506 insegnanti alla primaria, mentre alle medie gli uomini sono il 22% dei 155.705. La quota azzurra aumenta negli istituti superiori, nei quali tuttavia le donne restano il 66% degli oltre 241mila insegnanti.

Nel nostro Paese, dunque, la scuola si declina al femminile. Tale supremazia vale anche tra i dirigenti scolastici: sei su dieci sono donne. Il piano straordinario di assunzioni della cosiddetta “Buona scuola”, con circa 90mila nuovi immessi in ruolo, ha confermato lo squilibrio. Una realtà tutta italiana, ove si consideri che negli Stati Uniti le insegnanti non superano il 74%; in Spagna sono il 63%, mentre in Germania la presenza femminile crolla al 46,2%. Nel resto d’Europa solo l’Ungheria ha più donne in cattedra, con un 82,5%.

Inclusa la categoria ATA, la scuola totalizza 1.038.606 dipendenti, di cui 821.144 donne e 217.462 uomini. Un dato interessante: soltanto 17.078 lavoratori hanno conseguito un titolo post laurea, e si tratta quasi esclusivamente di donne. In generale, le lavoratrici laureate in Italia sono 3,5 milioni, mentre gli uomini si fermano a quota 2,9 milioni. Peccato che le cifre si invertano al momento del redde rationem su diritti, stipendi e occupazione. Come mai il numero di donne diminuisce bruscamente con l’aumentare del livello nel ruolo e nello stipendio? Perché nell’università italiana le ricercatrici sono il 35% del totale, solo il 20% le ordinarie, e – secondo i dati Miur del 2013 – vi sono solo 5 donne su 78 rettori?

Le tutele per le lavoratrici si sono drasticamente ridotte. Ogni anno 80mila dei 100mila supplenti sono donne, costrette alla precarietà malgrado vi siano i posti liberi per assumerle. Secondo quanto dichiara Marcello Pacifico, segretario della Confedir, “decine di migliaia di donne sono state costrette a cambiare provincia o regione per via di una cervellotica organizzazione delle assunzioni”, e, riguardo al precariato, “le laureate sono escluse dal concorso, in attesa di acquisire l’abilitazione di cui nel frattempo si sono perse le tracce. Si entra così in ruolo, in media, non prima dei 40 anni di età. … Quando, poi, entrerà a regime la riforma Monti-Fornero, con uomini e donne che lasceranno il lavoro solo alle soglie dei 68 anni, questi numeri sono destinati a crescere”.

Dopo il danno, la beffa. All’assodato predominio delle donne nel mondo dell’istruzione, due anni fa l’antropologa Ida Magli, recentemente scomparsa, dedicava un articolo nel quale commentava che l’allontanamento dei maschi dall’educazione “fa parte di quello stesso allontanamento testimoniato dall’omosessualità maschile, dal coito sterile, della quasi assoluta incapacità creativa della società italiana di oggi. In un certo senso testimonia la ribellione dei maschi al predominio e all’obbedienza verso le donne imposto loro dalla nascita fino alla fine della scuola secondaria superiore”. Poiché dall’età neonatale i bambini vengono lasciati nei nidi, ove il personale che li assiste è femminile, e per tutto il ciclo scolastico il predominio del personale insegnante femminile impedisce ai maschi il contatto con una personalità maschile con la quale identificarsi, sarebbe addirittura impedito “lo sviluppo del tipo di pensiero maschile, rivolto alla profondità e all’analisi in modo molto diverso da quello femminile”. La scuola andrebbe dunque arricchita di figure maschili; l’astuto articolo della Magli, peraltro autrice di “Matriarcato e potere delle donne” ma sempre controcorrente, evidenziava il ritardo della scuola italiana al confronto col modello anglo-americano, nel quale il numero dei docenti è ben più bilanciato tra uomini e donne. E per colpire l’immaginario collettivo si avvaleva di parole forti: “Tutto quello che le donne insegnano non è stato né creato né scoperto da loro. Socrate era maschio, Omero era maschio, Virgilio era maschio, Galileo era maschio, Leonardo era maschio, Mozart era maschio, Einstein era maschio”. La Magli giungeva ad affermare che persino il dato statistico che evidenzia come le studentesse siano più brave degli studenti, dimostra in modo inequivocabile “che viene fornito un insegnamento più adatto alle menti femminili che a quelle maschili”, e non, quindi, che le donne siano, a parità di intelligenza, più determinate. Una vis polemica, sia pure con la chiosa posta tra parentesi dall’autrice (“spero che le donne capiscano lo spirito con il quale faccio queste affermazioni e non se ne offendano”) anima questo saggio scritto probabilmente per gettare un sasso nello stagno, a partire dal titolo – davvero offensivo – che definisce le “Troppe donne” come “il male oscuro della scuola”. L’affermazione che non si possa insegnare “nulla di ciò che non si è in grado di «pensare», di «creare»”, ratificando una presupposta inferiorità culturale, prescinde da una storia millenaria che ha negato alle donne la possibilità di accedere a ogni tipo di sapere, nel corso della quale si è stratificata quella struttura maschilista della società che spinge ancor oggi le donne a dedicarsi prevalentemente all’insegnamento e non a percorsi di studio tecnico-scientifico.

Il problema dell’ordinamento scolastico non può essere ridotto a una questione di genere e, per di più, posta all’incontrario. Una pessima riforma della scuola ha concluso il processo di smantellamento dell’istruzione pubblica iniziato negli anni ’80, promosso in egual misura da ogni parte politica in una corsa alla distruzione del buono esistente. Sono state progressivamente introdotte nel sistema pubblico modifiche e strutture atte a snaturare la scuola come organismo orizzontale e livellatore delle differenze sociali che, piuttosto, accrescono il divario tra le scuole di serie A, con utenza borghese e benestante, e le scuole di serie B, nelle quali confinare la popolazione di bassa estrazione sociale.

La scuola pubblica italiana non era esente dal classismo nemmeno prima della riforma, ma la “Cattiva scuola”, con tanto di C maiuscola, riesce persino ad aggravare il fenomeno. Piuttosto che colmare le disuguaglianza prima socio-economiche, quindi cognitive e culturali, la scuola le sancisce, proponendo contenuti e modalità didattiche proposti come forme di sapere universali, legate invece ai valori dominanti: basti pensare all’introduzione nel sistema scolastico del lessico e dei modelli propri delle aziende, che poco o nulla con la cultura hanno a che fare.

Siamo di fronte a un grosso cadavere in decomposizione. Ed ecco che si scopre che l’educazione è un campo prettamente femminile, come se questo non fosse il frutto di cinquant’anni di politica volta a utilizzare la progressiva femminilizzazione della scuola secondo una funzione ideologica e disciplinatrice. L’esempio più chiaro riguarda l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e primaria, assimilato all’allevamento dei bambini, generalmente riconosciuto quale prerogativa femminile: pochi sanno che fino al 1977 era addirittura vietato agli uomini di insegnarvi. Un radicato stereotipo culturale colloca nell’ambito familiare la donna in posizione subordinata rispetto all’autorità maschile, ma sopraordinata al controllo dei figli; questo schema determina, insieme al mantenimento del basso livello degli stipendi, che li rende meno appetibili per il capo-famiglia, una presenza maschile minoritaria nella scuola. E l’insegnante donna, inoltre, tacciata, quasi fosse una colpa, di avere “tanto tempo libero” viene gravata del doppio carico del lavoro scolastico e domestico, così funzionale al sistema. Il paradosso è che il modello dell’insegnamento come professione tipicamente femminile si basa sulla centralità del ruolo di moglie e di madre cui molte donne hanno cercato di sfuggire, intraprendendo una professione per emanciparsi. Secondo la studiosa di questioni di genere nel mondo antico Marcella Farioli, la donna è il soggetto ideale per garantire il peso della scuola nel mantenimento dell’ordine borghese, in quanto esercita per via matrilineare la funzione disciplinatrice svolta dalla madre tramite l’educazione primaria. “Le donne sono le più adatte a convincere col loro esempio ogni soggetto sociale a restare al posto che gli compete ‘per natura’, trasponendo la divisione dei ruoli così come la tradizione l’ha codificata” scrive la Farioli. “Il conformismo nei contenuti trasmessi dalle insegnanti, legato alla secolare subalternità culturale e alla mancanza di autonomia di molte donne, dipende anche dall’effetto di rassicurazione che esso provoca in un sesso allevato nella persuasione del proprio disvalore”. Eppure l’ingresso femminile nell’universo dell’istruzione superiore dalla fine degli anni Sessanta, nacque come rifiuto culturale dei ruoli predestinati di moglie e madre; tuttavia il massiccio assorbimento di donne in una professione identificata con un’ascesa sociale ha disinnescato il potenziale di novità contenuto nelle istanze di liberazione, finendo col trasformare le insegnanti in sostenitrici di quel medesimo sistema patriarcale che avevano contestato, risolvendosi di fatto nella neutralizzazione delle istanze di cambiamento.

La predominanza di donne tra i laureati non lascia prevedere, in atto, una inversione di tendenza. In paesi come il nostro, dove gran parte delle attività domestiche è svolta dalle donne, è facile che esse siano indotte a continuare a scegliere una professione che permetta la conciliazione di più compiti. In buona sostanza, i condizionamenti sociali sono più forti delle propensioni individuali. Con buona pace delle pari opportunità. Perché, vale la pena ricordarlo, una minore femminilizzazione dell’insegnamento potrebbe non solo favorire il percorso evolutivo degli studenti, ma costituire un indicatore del fatto che nel mercato del lavoro siano contemplate le medesime opportunità, al di là di pretestuosi riconoscimenti di una effettiva uguaglianza di genere.

Parafrasando il sociologo Peter Ludwig Berger, che scriveva che “non è esatto dire che ogni società ha gli uomini che si merita; è più giusto dire che ogni società produce gli uomini che le servono”, è accaduto che questa società ha prodotto gli educatori che le servivano. Anzi, le educatrici.


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