05 Agosto 2012, 10:35
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Agosto. Alcuni deputati regionali, in vista della candidatura alle prossime elezioni, annunciano di voler fare una campagna “discreta, per non disturbare la villeggiatura” dei loro elettori. La villeggiatura è un buon simbolo di una certa sicilitudine. Fa caldo, non si può pensare.
Invece si può. E si deve, anche. Se non altro, per iniettare una robusta dose di antiretorica nel dibattito sempre più stagnante sulla Sicilia che va al voto. Prima che inizi il valzer delle alleanze e il gioco dei veti incrociati. Ne parlo con Salvatore Nicosia, Presidente dell’Istituto Gramsci, scrittore e intellettuale (nonché Professore Emerito di Letteratura greca nell’Università di Palermo).
Alcuni commentatori – penso a Caracciolo sull’ultimo numero di Limes – interpretano la crisi finanziaria attuale come crisi di identità geopolitica: il caso spagnolo mostra la fragilità di un modello – quello federale – che per molti anni ci è stato detto essere la panacea di molti (se non tutti) i mali. Il rapporto fra centro e periferie, lo vediamo anche in Italia con la contrapposizione per esempio fra sindaci e governo nazionale, è quanto mai problematico. Che ne è delle autonomie in tempi di tagli?
“Fino a qualche decennio fa mi sembrava che l’Europa stesse ripercorrendo all’inverso il cammino fatto nell’ 800, con la formazione degli stati nazionali avvenuta inglobando culture fra loro molto diverse. Dagli Stati nazionali, fondati sulla riduzione ad unità politica di regioni e società storicamente e culturalmente diverse (nel 1861 fra Sicilia e la Lombardia c’era un abisso) mi pareva che riemergessero le identità particolari: per ovvie, plausibili ragioni. All’interno di questa dinamica c’era tutta la riflessione antropologica e sociologica sul concetto di identità, sui tratti distintivi non soltanto degli individui ma anche delle culture. Questo era, per esempio, la Lega, o la Catalogna, e in forme tragiche e devastanti, la frantumazione della Iugoslavia. Negli ultimi tempi, con la globalizzazione e l’impossibilità di perseguire disegni economici particolari, questo modello è venuto in crisi. Non è più in questione l’identità della regione, ma è la stessa identità delle nazioni che viene ad essere toccata. Draghi parla e le borse crollano o salgono, in tempo reale. Non si vede come si possa conciliare l’identità particolare con i meccanismi della globalizzazione economica”.
Dal punto di vista di Bruxelles, di Roma e delle Banche centrali le autonomie sono “cicale” sprecone e incapaci, da sottoporre a sorveglianza. Da quello del cittadino sono invece il primo e più immediato interlocutore. Che senso hanno i poteri locali se i margini di manovra che essi hanno sono così limitati?
“I poteri locali sono stati molto valorizzati, dal dopoguerra ad oggi, per l’ovvia considerazione che certe esigenza si percepiscono meglio a livello locale. Le autonomie dovevano servire a conciliare le esigenze dello stato nazionale con le spinte al separatismo manifestatesi, in Sicilia per esempio, durante la seconda guerra, un processo che è continuato con l’istituzione generalizzata delle Regioni secondo il dettato costituzionale, ed è stato sempre più potenziato con il trasferimento di poteri alle Regioni. Questo avrebbe dovuto innescare un processo di corrispondenza fra le esigenze locali e un livello centrale in grado di rispondere a tali esigenze. L’economia può oggi cogliere le esigenze ma non più soddisfarle perché le regole vengono imposte a livello nazionale, e a sua volta il governo nazionale è sovradeterminato dall’Unione Europea. E questa dagli Stati Uniti. E dalla Cina e dagli altri paesi emergenti”.
Parliamo di Sicilia. Fino a qualche mese fa i mali che affliggono la Sicilia sembravano in realtà estendersi da nord a sud in tutta Italia: clientelismo, sprechi, infiltrazioni mafiose, affarismo. Ora il caso Lombardo sembra fatto apposta per consentire ad alcuni di autoassolversi e additare altri colpevoli. C’è qualcosa di artificioso nel modo in cui è stata raccontata tutta la vicenda?
“Nessuno nega l’estensione di questi comportamenti, ma ciò che contraddistingue la Sicilia e tutto il meridione è che qui l’attività produttiva è minima. L’attività produttiva è l’antidoto al clientelismo. L’assenza di un’ossatura economica produttiva ingigantisce il clientelismo e lo rende non paragonabile a quello di altre realtà d’Italia, soprattutto al Nord”.
Lombardo dimettendosi è ritornato a dare voce a pulsioni separatiste, invocando un “modello Malta”. Queste rivendicazioni hanno una base sociale ed economica o rispondono soltanto ad esigenze tattiche?
“Il “sicilianismo” ha un suo richiamo culturale, è tipico dei gruppi sociali che si sentono penalizzati ed emarginati, anche geograficamente. È diffuso, è presente. Quando ero ragazzino ho sentito dire a qualcuno: «la Sicilia un tempo era unita all’Italia, poi l’Italia le diede un calcio e si creò lo stretto!» Era una buona metafora della separazione. Poi c’è stata l’unificazione culturale, la televisione e soprattutto la grande rivoluzione della scuola dell’obbligo. L’unica vera rivoluzione, fra le tante millantate!”.
Autonomia Siciliana: i fallimenti di questi ultimi decenni sono dovuti a cattiva gestione, cioè alle persone, o a un difetto di origine?
“A entrambe le cose: da un lato le scelte economiche fatte dalla Sicilia, cioè il modello industriale del nord, si sono dimostrate disastrose per la devastazione del territorio che hanno prodotto. L’intenzione era di trattenere almeno una parte dei contadini che andavano a diventare operai a Milano, a Genova o in Germania (ancora negli anni ‘80 ne tornavano con la pensione da poco ottenuta). La Sicilia ha guardato a quel modello e invece doveva compiere una rotazione a 180 gradi e guardare a sud. Poi è venuto il tempo delle partecipazioni statali, dello stato imprenditore, che è stato fonte di corruzione e di acquisizione di clientele. Questo ha creato delle condizioni strutturali cui si sommano peculiarità come la mancanza di spirito imprenditoriale e di accettazione del rischio”.
Torniamo sul “modello Malta”, dando per buono che non sia una boutade. Per molti anni si è pensato per la Sicilia un modello di sviluppo tutto incentrato su turismo e cultura e quindi quando chiude la fiat a Termini molti hanno buon gioco nel dire: non è sulla fabbrica che deve puntare la Sicilia! Il lavoro senza lavoro, tutto virtuale, tutto software e niente hardware, il lavoro “inventato” è necessità, utopia, o cosa?
“Nella difficile situazione in cui per ragioni strutturali ci troviamo, per risolvere i problemi spesso si inventano formule. Il turismo può essere una risorsa, non l’unica. Il lavoro non può essere sempre “inventato”. Forse un’agricoltura moderna, che non sia schiavitù e sfruttamento come quella di un tempo nella Sicilia interna, ma neanche sfruttamento abnorme del terreno e degli extracomunitari, e neanche campo di azione della mafia, potrebbe dare un notevole contributo all’economia Siciliana”.
Lo storico Renda ha detto ieri: «Tutti ci criticano per il comportamento che teniamo. Spesso diciamo di voler fare le cose e non mettiamo nessun impegno a farle. Il siciliano è questo, il siciliano non vuole cambiare (…) La Sicilia vuole restare così perché così sta bene». Questa dell’indolenza non è anche, fin dal Principe di Salina, una retorica un po’ opprimente e conservatrice?
“È la retorica del Gattopardo, la retorica della bellezza, del caldo. Soffriamo il caldo più dei popoli equatoriali! Queste costruzioni mentali creano una rete di conservazione spaventosa. Bisogna uscire da questa retorica, dalla retorica della “sicilitudine”. Basta!”
Un ampio consenso non si traduce necessariamente in una stagione di riforme, e si è visto. L’antipopulismo è la nuova frontiera della sinistra di governo? Tutte le richieste che provengono dal popolo (che mi pare definizione migliore di “società civile”) sono da rispedire al mittente, sia che si tratti di caccia allo straniero sia che si tratti di uguaglianza davanti alla legge? Quella “impopolare” insomma è l’unica buona riforma?
“Populismo è il ricorso a orientamenti del popolo che non si traducono in politica. Ma non tutto è populismo: quando si esprimono sentimenti di ostilità alla casta, si avverte una resistenza della politica che è incomprensibile. La casta si sta autocondannando. Il risultato è il discredito della politica, che è un fatto negativo, perché la politica non è un “cosa sporca”. Molti pensatori hanno per secoli discusso su quali forme di convivenza darsi, su come realizzare la felicità di cui parlava Platone e di cui parla la Costituzione Americana. Questa battaglia dalla sinistra non è stata fatta”.
A Taranto si sta consumando una guerra tragica: diritto alla salute contro diritto al lavoro, in grande solitudine. Gli operai esistono ancora e stanno peggio di quando erano al centro dell’attenzione: il lavoro – dice il ministro, poi in parte correggendosi – è un privilegio. Non è un paradosso che la sinistra abbia esaurito pensieri e parole sul lavoro (tranne qualche affermazione di principio) proprio ora che servirebbero come non mai?
“Conciliare lavoro e salute non è semplice. C’è nei movimenti ambientalisti una spinta regressiva, conservatrice. La battaglia degli operai, chi ha bisogno, chi subisce ingiustizie reali – dagli extracomunitari agli insegnanti – bisognerebbe intestarsela. Bisognerebbe che trovasse una sede, che io – nel caso specifico degli insegnanti di cui mi sono occupato – non ho mai trovato, è una battaglia di sinistra, che non viene assunta da nessuno”.
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