21 Maggio 2016, 06:08
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Il suo nome dalle parti di certa antimafia suona quasi come un’eresia. Il saggio scritto a quattro mani con il giurista Giovanni Fiandaca è stato un testo da mettere all’indice per la parte più dura e pura del movimento antimafioso, oggi sconquassato da una lunga scia di scandali. Ma lo storico Salvatore Lupo non si scomponeva allora e non lo fa neanche oggi. “Non sto in nessun fronte, tanto meno in quello dell’anti-antimafia”, dice. Ribadendo il suo punto di vista, da sempre indigesto ai paladini della retorica legalitaria, per cui “la mafia non ha vinto” (come afferma il titolo del libro scritto con Fiandaca) e se oggi Cosa Nostra non è più quella di vent’anni fa, il “fronte” che si è autoproclamato suo oppositore farebbe bene a procedere a una profonda revisione. Anche se, ammonisce lo storico, “la criminalizzazione dell’antimafia sarebbe sbagliata”.
“La mafia non è stata salvata”, ripete lo studioso per smontare il caposaldo dei teoremi degli inquirenti che hanno imbastito i processi sulla trattativa. Su questo fronte è dell’altroieri la notizia della conferma in appello dell’assoluzione per Mario Mori e Mauro Obinu per il mancato arresto di Provenzano. Notizia arrivata a Palermo poche ore dopo l’agguato nel Messinese al presidente del Parco dei Nebrodi, un fatto su cui sembra si allunghino le ombre di quei “mafia dei pascoli” rimasta nell’ombra negli anni della lotta dura a Cosa Nostra.
Professore, in questi giorni c’è un certo fermento all’interno del recinto della variegata galassia antimafia. Quasi si volesse “salvare il salvabile” per non compromettere la storia di un movimento dopo i tanti scandali degli ultimi mesi. In questo contesto si susseguono dichiarazioni critiche, prese di posizione, si parla anche di “manifesti”. Che idea s’è fatto di questo fenomeno?
“Innanzitutto io non so di alcun manifesto. Quindi gli articoli di stampa che mi dipingono come firmatario di questo manifesto sono fantasticherie. Anzi, per curiosità, ho chiesto a un paio di persone che sono state indicate come ipotetici firmatari e loro mi hanno detto che non ne sanno niente”.
Parla del professore Fiandaca?
“Ho chiesto a Fiandaca, a Forgione… È uno dei casi in cui si discute del nulla. Mi preme chiarire che io non ho ambizioni politiche, come qualcuno ha ipotizzato. Questo è un segno di imbarbarimento della discussione. Invece di discutere si mettono in bocca opinioni e nella mente intenzioni senza alcun riscontro empirico”.
Ma proprio questa tendenza alla “dietrologia” non è stata una costante di una certa antimafia?
“Può darsi. Ma man mano che ci si allontana dallo stato nascente, dal momento in cui tutto questo fu necessario, le cose cambiano. Allora quel fenomeno assunse la parvenza di un fronte, il che forse era giusto per molti, capisco che lo sia stato anche se non ne ho fatto parte. È stato così quando tutto ciò era sentito come necessario, adesso, vent’anni dopo, è caricaturale dire che chiunque dica una cosa diversa fa parte del fronte opposto. Anche perché, quali sono i fronti? Io neanche li riconosco più. Le faccio un esempio”.
Prego.
“All’inizio degli anni ’90 andai a Lecce per partecipare a una discussione sulla mafia. Siamo nel periodo in cui Arlacchi e Vassalli fecero la polemica sulla cultura siciliana omertosa. Io dissi che quella storia non solo era un discorso che non stava in piedi ma che veniva smentito dai tanti siciliani che facevano ricerca su quei temi. E molto meglio di Arlacchi stesso a mio parere. A quel punto si alza uno, che non credo fosse uno studente, sembrava piuttosto un insegnante, tutto indignato e mi dice che malattia era questa del fronte antimafia di dividersi sempre. E ancora: dov’ero io quando Arlacchi faceva le battaglie contro Riina? Io rimasi basito perché mai avrei pensato che le mie divergenze scientifiche con Arlacchi c’entrassero con l’esigenza di combattere la mafia che da un punto di vista spirituale era comune a me e Arlacchi e ad altre migliaia di persone”.
Lei però ha appena detto che allora tutto questo poteva avere senso…
“Si, dobbiamo ricordarci che le cose avevano un andamento molto drammatico. Quella persona era in buon fede, io l’ho rintuzzato ma ho capito la sua buona fede. Ma mi chiedo quanto sia in buona fede chi fa oggi questi discorsi. Soprattutto quelli che mi devono spiegare cos’è l’antimafia. Non ho bisogno di manifesti e non ne firmerò, non lo faccio dai tempi del Vietnam”.
Non finirà che il dibattito sui rischi del professionismo antimafia di sciasciana memoria si esaurirà tutto all’interno del recinto degli stessi professionisti dell’antimafia?
“È ovvio che sia così. Sciascia diceva delle cose metodologicamente giuste, ma spesso empiricamente sbagliate”.
Si riferisce a Borsellino…
“Sì. Che un magistrato o un poliziotto possano essere professionisti dell’antimafia a Sciascia poteva sembrare strano ma se avesse riflettuto meglio… Il fatto che ci siano dei politici che fondano una carriera sull’antimafia non è vero che non ha a che fare con la democrazia. L’America ci offre una quantità di esempi di politici che sul tema della legalità hanno costruito la loro fortuna elettorale, pensi a Rudolph Giuliani. Se poi si considera che siamo in un’era post-ideologica, in cui buona parte dell’elettorato ha superato le categorie di destra e sinistra, su qualcosa si deve pur giudicare. Noi rischiamo di colpevolizzare gente che fa politica fondando la propria azione su una esigenza etica che non è sbagliata. Sbagliato è dire: io sono morale e tu no. E soprattutto non ci può essere il fronte della morale contro quello dell’immorale, perché nel primo ci saranno inevitabilmente comportamenti immorali. C’è gente che fa polemiche esagerate e sincere, chi ne fa equilibrate e sincere, chi ne fa esagerate e insincere. È per questo che l’antimafia non può essere un partito politico. Poi l’antimafia è una risorsa troppo facile: per avere una risorsa bisogna pagare un prezzo”.
Il prezzo negli ultimi anni si è abbassato parecchio, poteva bastare anche una lettera di minacce…
“Si, o semplicemente una voce che ci sarà un attentato. Ma la criminalizzazione dell’antimafia sarebbe un errore. Sarebbe un’operazione sbagliata”.
Ma non è che oggi contro l’antimafia si ritorce lo stesso veleno della cultura del sospetto e della generalizzazione che al suo interno ha prosperato?
“Forse. Guardi, io sono lontano dalla cultura del sospetto. Ma se uno non valuta i politici su criteri ideologici, lo fa sulla base dei loro comportamenti etici: se vanno a cena coi delinquenti o no, se prendono tangenti o no. Il problema è che l’antimafia è una risorsa troppo disponibile. Qualsiasi uomo politico, giornalista, magistrato, nullafacente si può autodefinire rappresentante dell’antimafia e dire che tutti quelli che dicono qualcosa che non gli piace sono amici della mafia. Come qualche alto magistrato che disse che io e Fiandaca col nostro libro mettevamo a rischio la vita dei magistrati, peraltro prima ancora che il libro uscisse”.
Lei fa riferimento ancora alla politica. Ma l’antimafia ha espanso il suo raggio d’azione in questi anni anche in altri ambiti, dall’economia alla galassia dell’associazionismo.
“Vale per tutti. Ci sono stati i tempi in cui le associazioni industriali dicevano che la mafia non esiste…”.
E questo non era certo meglio, ne converrà…
“Si, non era meglio. Ora si compete a chi è più antimafioso non a chi è più mafioso… Che poi c’è da precisare che i paladini beccati a prendere tangenti non sono stati beccati a colludere con la mafia. Rappresentano interessi diversi da quelli della mafia, illeciti anch’essi. Ma se noi chiamiamo mafia tutto il malcostume, non capiamo più molto”.
Tornando ai politici: oltre a valutarli ideologicamente o secondo categorie etiche, non si potrebbe magari valutarli per i risultati che raggiungono?
“Sì, ma se un presidente della Regione si chiude in un magazzino con una capomafia… In un periodo storico diverso, il fatto che un politico avesse galoppini elettorali malavitosi era normale, oggi non può esserlo. Lei dice: valutiamoli per quello che fanno, ma non è facilissimo”.
Non è facile perché lo scaricabarile rende complicato attribuire responsabilità precise?
“Ma perché ci sono problemi strutturali. Se tutti i sindaci violano la legge non credo che ci sia una predisposizione a delinquere dei sindaci”.
Poco fa lei ha detto che il movimento antimafia alle sue origine “assunse la parvenza di un fronte”. Mi pare evidente che lei da questo “fronte” si chiami fuori.
“Non posso stare su un fronte di questo tipo. Se ci sto, lo faccio su questioni di principio, magari su una riforma della legge elettorale che non condivido. No, non sto in nessun fronte, tanto meno in quello dell’anti-antimafia”.
Al “fronte” di cui le parla sono risultate indigeste le teorie che lei e il professore Fiandaca avete esposto sulla vicenda della trattativa. Che lei, parlando alla commissione Antimafia, ha descritto come un tentativo di continuare a guardare sempre all’indietro per mantenere viva una certa mitologia mafiosa che giustifica il mantenimento di certe prerogative. Allo storico però chiedo se i fatti legati alla trattativa non presentano a suo giudizio una molteplicità di aspetti oscuri.
“È chiaro che sì. I fatti di quel periodo come altri. Tanto più che quello fu un periodo di passaggio convulso, aperto a esiti imprevisti. Ma non è logico sostenere che tutti i fatti non spiegati possono essere il frutto di un complotto, è inverosimile. Quindi il complotto non c’è o se c’è stato un complotto o dei complotti non sono stati efficaci. Tutti questi complottologi trascurano il fatto che spesso i complotti non riescono. Se Cosa Nostra si aspettava che Berlusconi la salvasse, non è andata così”.
Anzi, lei sottolinea sempre come negli ultimi vent’anni siano stati inflitti colpi durissimi a Cosa Nostra, con risultati senza precedenti.
“Certo. Vede, il processo della trattativa presuppone la continuità di un sistema politico, che non c’è stata”.
Però se dei complotti anche non riusciti ci sono stati, val la pena di indagare, o no?
“Vediamo di cosa si tratta, vediamo se ci sono stati comportamenti che confinavano con l’illegalità o se ci sono reati”.
Certo è difficile farlo più di vent’anni dopo.
“Soprattutto se si parte da un concetto regressivo e cioè che la mafia è forte come allora. Che è quello che abbiamo negato col nostro libro. Se la domanda di partenza è ‘chi ha salvato la mafia?’, se è questo il presupposto, c’è un errore di fondo. Perché la mafia non è stata salvata”.
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21 Maggio 2016, 06:08