La versione di Mori e De Donno | “Abbiamo fatto il nostro dovere”

di

20 Maggio 2018, 12:43

3 min di lettura

ROMA – “Noi abbiamo fatto sempre il nostro dovere, non abbiamo nulla da rimproverarci e faremo appello. Altri invece si devono vergognare di quello che hanno fatto”. Lo ha detto l’ex ufficiale del Ros Giuseppe De Donno – collaboratore del generale Mario Mori – condannato a 8 anni nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Al processo, si è lamentato De Donno a margine dell’assemblea del Partito radicale cui ha partecipato insieme allo stesso Mori, “oltre 200 documenti e 50 testi a nostro favore non sono stati ammessi, abbiamo fatto il nostro lavoro con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, usando le armi che lo Stato ci dà”.

“Non accetto di essere considerato un traditore dello Stato, un fellone come si diceva una volta e continuerò a lottare fino in fondo certo che alla fine vincerò”, ha aggiunto il generale Mario Mori, commentando all’assemblea del Partito Radicale la sentenza della Corte d’assise di Palermo che lo ha condannato a 12 anni nel processo sulla trattativa stato-mafia. “Sono partito dalla parte della giustizia – ha spiegato Mori – e mi trovo dall’altra parte: questo è doloroso per un ufficiale dei carabinieri. Da 15 anni faccio l’imputato e sono incazzato, ma sono un agonista, ho bisogno di un nemico, le battaglie mi danno forza”.

Il generale ha quindi ricostruito le sue vicende processuali individuando nell’inchiesta cosiddetta mafia-appalti del 1989 il punto di partenza della frattura tra procura di Palermo e Ros dei carabinieri. “Non si può comprendere il mio caso – ha sottolineato il generale – se non si parte dal 1989, quando Giuseppe De Donno (suo stretto collaboratore nel Ros, ndr) iniziò un’investigazione su quello che appariva un ‘modesto’ omicidio, ma dal quale emerse poi un contesto in cui la gestione degli appalti pubblici in Sicilia e altrove era guidata da un direttorio costituito da Cosa Nostra, imprenditori e politici”. Dell’indagine, ha proseguito Mori, “si interessò Giovanni Falcone fino a quando non fu trasferito al ministero a Roma. Lui insistette perché consegnassimo l’informativa, ma noi non eravamo convinti perché volevamo più tempo. Alla fine ci convinse e l’inchiesta mafia-appalti per 3-4 mesi sparì nel nulla, finché nel 1991 la procura emise 5 ordinanze di custodia cautelare: la montagna aveva partorito il topolino. L’informativa fu consegnata agli avvocati ed a quel punto anche la mafia seppe dove eravamo arrivati. Questo ci fece arrabbiare e lo dicemmo al procuratore della Repubblica: ci fu quindi grande crisi tra Procura e Ros”.

Articoli Correlati

“Nel 1992 – ha ricostruito ancora l’ex comandante del Ros – fu ucciso Falcone e Paolo Borsellino chiese di parlare con me e Giuseppe De Donno (suo collaboratore nel Ros, ndr). Ci incontrammo nella caserma Carini di Palermo. Lui era convinto che l’inchiesta mafia-appalti fosse la causa dell’uccisione di Falcone, io non ero convinto perché potevano anche esserci altre cause. Borsellino riteneva comunque che quell’indagine era il sistema migliore per ‘entrare’ dentro Cosa Nostra e chiese che il Ros indagasse. Il 19 luglio fu ucciso anche lui, ma pochi giorni prima, il 13 luglio, due magistrati di Palermo chiesero l’archiviazione dell’inchiesta ed il 22 luglio il procuratore Giammanco firmò la richiesta di archiviazione che fu accordata il 14 agosto”.

“A quel punto – ha ricordato – io ruppi pesantemente con la Procura e queste vicende hanno dato vita ad una serie di incomprensioni. Non dico che tutta la ragione sta dalla mia parte, ma io e De Donno ci siamo comportati secondo la nostra etica professionale. La frattura riemerse poi con la cattura di Riina, forse il maggiore successo nella lotta alla mafia. Da lì è cominciato il confronto che non ha mai avuto fine”.(ANSA).

Pubblicato il

20 Maggio 2018, 12:43

Condividi sui social