05 Marzo 2012, 12:37
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Quando qualche giorno addietro Francesco Foresta mi ha proposto di collaborare ad “I love Sicilia” con una rubrica dove riportassi le tante riflessioni che negli ultimi anni ho messo giù su di un mondo che va in una direzione che non condivido, devo dirvi che ho avuto un po’ paura. Ho pensato che considerazioni non “politically correct”, altro è condividerle tra amici, dove pensi di trovare consensi, altro è pubblicarle su una prestigiosa rivista come “I love Sicilia”. Ma poi ho pensato che invece volevo ascoltare anche le critiche alla visione di una realtà che secondo me sta drammaticamente cambiando e certamente non in meglio. Per far questo dovevo allargare il parterre dei miei interlocutori ed eccomi quindi pronto a mettermi in gioco.
Leggerete sempre in questa rubrica, che Francesco ha voluto chiamare “Timpulata Allegra”, quello che penso ed in primis il mio modesto ma forte grido d’allarme contro il “siamo tutti uguali” della Valtur, delle discoteche adriatiche, di una scuola e di una università senza meritocrazia, di un posto di lavoro senza gerarchie, di famiglie senza ruoli, di telefonini (oggi iPhone) utilizzati senza educazione, di circoli e club cui si accede con il denaro e non in funzione dell’interesse per lo sport o l’hobby che quel circolo propone, ecc. ecc. Un grido forte contro questa realtà di uguali che, omogeneizzando tutto e tutti, sta estinguendo “la diversità”, sta facendo morire “le differenze”. Proverò a spiegare perché, secondo me, ognuno di noi, invece di “allinearsi” sempre, dovrebbe invece riscoprirsi non uguale agli altri, ma meravigliosamente diverso ed unico.
Cercherò di dimostrare che riconoscendo che ci sono “altri” capaci di fare cose che noi non sappiamo fare e non sapremo fare mai, godremmo del fatto che noi di cose ne sappiamo fare molte altre, anche se non per forza trendy o televisivamente imposte. Descriverò l’amarezza per l’incomprensibile omologazione e omogeneizzazione di tutto e di tutti senza voler compiacere ad alcuno, ma nella presuntuosa convinzione che siamo in tantissimi a pensare ciò che ho scritto, anche se forse pochissimi hanno voglia di dirlo!
La carrozza nera con le bordature dorate percorreva il viale della Libertà tra due filari di alberi ed io, seduto accanto alla nonna, guardavo affascinato il tassametro che ogni 100-150 metri faceva uno scatto di 5 lire. Mio fratello era nato da poche ore in una clinica del centro e la nonna ed io stavamo andando a trovare la mamma. Avevamo preso la carrozza perché né la nonna aveva la macchina (sì proprio così, non aveva un mezzo di locomozione proprio) né, peraltro, sapeva guidare.
Devo quindi a queste due fortunate, stupende e non casuali coincidenze quella meravigliosa passeggiata in carrozza che per me segna l’inizio di tutti i ricordi. Il cocchiere (come è strano chiamarlo così; a Palermo infatti, fin quando ci furono le carrozze, questo operatore dei trasporti fu soltanto e per tutti “u gnuri”) con il suo grembiule nero come il carbone, ogni tanto faceva volteggiare in aria la frusta per intimorire e spronare il cavallo ed aveva segnata, sul suo volto olivastro e arabo, la storia del suo lavoro, della sua sicilianità, ma principalmente del suo essere “gnuri” con quel fascino unico, che egli ben sapeva di possedere. Non posso non sorridere, ripensando a “u gnuri”. Infatti mi scorrono in mente tutti i nomi dei lavori e delle condizioni che sull’altare di un discutibile “politically correct” sono stati stravolti. La domestica adesso si chiama “colf” (collaboratrice familiare), lo spazzino “operatore ecologico”, il centralino “operatore del call center”, il bidello “membro del personale ATA”, i secondini “guardie penitenziarie”, gli inservienti dei reparti ospedalieri “operatori tecnico-manuali”, i rappresentanti di farmaci “collaboratori scientifici”, i contadini “braccianti agricoli”, ecc.
Mi viene ancora da pensare al perché in tantissimi luoghi di lavoro non debba esistere più “la divisa”. Nei mezzi pubblici, quantomeno nelle grandi città del Mezzogiorno, gli autisti guidano sempre senza la divisa aziendale, ma indossando anche loro indumenti personali, spesso griffati (griffati taroccati, ma griffati). Le commesse dei grandi magazzini sono spesso elegantissime signore a volte difficilmente identificabili dal cliente, come peraltro i commessi dei pubblici uffici, che, quando un utente deve chiedere dove sia la stanza 19, si trova nell’imbarazzo di dover indovinare chi è l’interlocutore giusto cui chiedere l’informazione; i custodi degli stabili di civile abitazione, allo stesso modo, hanno dismesso ormai da tanti anni di indossare la divisa.
Tutti costoro probabilmente credono di affermare, attraverso la deruolizzazione dell’abbigliamento, un loro riscatto nel lavoro, riscatto giacca-mediato o pantalone-mediato. È difficilmente credibile, ma ho anche visto operatori ecologici (in questi casi mi auguro però si tratti davvero di eccezioni) lavorare “in borghese” durante la raccolta dei rifiuti. È come se il medico decidesse in ambulatorio di non usare il camice o il calciatore di non indossare la maglietta della propria squadra durante una partita di campionato.
Ritengo allora doveroso cercare di capire.
La sensazione che si coglie, così “a pelle”, è che l’indossare la divisa di un lavoro ritenuto umile, rimarcando il ruolo, accentui il disagio di chi la indossa verso il lavoro che svolge. La sensazione è quella che, cambiando il nome, non indossando una “divisa”, sembrando più simili ad un modello astratto di riferimento si dia una dignità diversa e superiore al proprio lavoro e quindi alla propria persona. Questo se si vuole essere buoni. Se invece si vuole causticamente affondare la lama della riflessione si può anche, senza paura, dire che tutti pretendono di essere uguali e tutti “top”. Ma cosa vuol dire “top”. Non ci capisco davvero proprio niente.
Proviamo a mettere ordine.
Credo che il lavoro abbia una grande, incommensurabile dignità in sé e che non è un nome diverso rispetto al passato e alla tradizione che può adombrare invece un grado, questo sì, diverso di responsabilità e quindi una diversa remunerazione. Il mondo, da quando esiste, è una gigantesca piramide di ruoli e di responsabilità e certamente oggi, in una società che, tutta tesa al profitto, perdona meno di ieri, questa piramide ha una stratificazione ancor più inesorabilmente marcata anche se apparentemente inesistente. È come se si vivesse su due piani sfalsati della realtà: l’uno, quello vero, dove gli ultimi sono sempre ultimi e quotidianamente subiscono mortificazioni inesorabili, dove i penultimi, mentre umiliano gli ultimi, sono anch’essi inesorabilmente massacrati dai capi e dove i capi, dandosi del tu con tutti, considerano “tutti” mezzi per arrivare al successo. L’altro piano è quello che si materializza alla sera in pizzeria dove tutti, ultimi, penultimi, capi e vicecapi casualmente si incontrano e in una farneticante confusione di ruoli sembrano uguali.
Tutti in pizzeria mangiano patatine fritte rigorosamente surgelate, bevono in bicchieri rigorosamente di carta che volano al primo soffio di vento, si asciugano con tovaglioli di carta che non asciugano proprio nulla e tutti rigorosamente pagano con carta di credito, anche conti da 20 euro.
Mi ricordo, invece, un episodio raccontatomi da mio padre che si riferisce a quando egli cominciò a lavorare in banca alla metà degli anni ’40. In banca, come peraltro dappertutto allora, ognuno aveva perfetta coscienza e conoscenza del proprio ruolo e del ruolo degli altri. Un giorno il capoufficio chiamò mio padre informandolo che il direttore voleva immediatamente parlargli per avere delucidazioni su una pratica di fido che mio padre aveva condotto in un modo che, a detta del capoufficio, non era molto piaciuto al direttore. Mentre percorreva il corridoio che lo separava dalla porta della direzione, mio padre pensava a come giustificare il proprio comportamento e le proprie scelte di fronte al “capo” il quale certamente, per non essere d’accordo con il suo operato, doveva avere delle buone ragioni, frutto della sua esperienza, della sua certamente maggiore competenza e della sua capacità di leggere i problemi in un’interezza che forse sfuggiva al semplice impiegato dell’“ufficio rischi”, quale mio padre allora era. Entrato nella stanza del direttore, con un carico di emozione così grande, che ancora traspariva palpabilissimo nel racconto da lui fattomi ben venti anni dopo l’episodio, mio padre, sicuro delle proprie ragioni e del suo giusto operato, fece valere le une e l’altro, ma sempre nella convinzione che chi doveva spiegare qualcosa ed eventualmente chiarire le proprie scelte fosse lui e non viceversa.
Appena 60 anni addietro infatti, nel mondo del lavoro come nei rapporti in famiglia, nello sport, nelle associazioni, nei partiti si riconosceva una gerarchia, si riconosceva nella sostanza, ma anche nella forma il differente ruolo gerarchico delle diverse persone. Per mio padre il direttore era “Il Signor Direttore” e con quel “Signor”, anteposto alla qualifica “Direttore” lui, come tutti i dipendenti, riconosceva in quella persona il suo ruolo e le sue alte e diverse competenze. Oggi, nella sostanza, la gerarchia continua ad esserci, ma nessuno è disposto a riconoscerla. Fateci caso. Nessuno, o quasi, nel linguaggio parlato antepone più la dizione “signor” al ruolo di un superiore (e peraltro nessuno riconosce appunto un “superiore”). Nessuno chiama più il direttore “signor direttore”, il presidente “signor presidente”, il ministro “signor ministro”. Oggi nessuno ha voglia di ammettere che esiste una gerarchia formale e sostanziale e che questa ha anche un inevitabile risvolto semantico. E quindi ti chiamo in un modo che riduce la distanza tra te e me. Sì, tu sei il presidente ma io sono un signore e se fossi stato raccomandato, come sei stato tu, probabilmente al tuo posto ci sarei io che come e più di te ne ho le capacità!
Circa 5 anni addietro, in un occasione congressuale, mi capitò di aver presentato il Magnifico Rettore della Nostra Università. Io, allora, in coerenza con la mia educazione e con il mio rispetto profondo dei ruoli e delle Istituzioni, nello stringergli la mano chinai il capo in atteggiamento di deferenza. Quando, dopo qualche minuto, raggiunsi un mio giovane collaboratore, questi mi guardò con aria stupita e interrogativa e quando gli chiesi perché mi guardasse così, rispose: “Mi ha colpito il modo deferente con il quale hai salutato il Rettore”. Ma quel che realmente pensava era “perché ti sei voluto arruffianare il Rettore con quel saluto da cortigiano?”. Provai a spiegare al mio giovane collega che con quel saluto io volevo salutare da un canto la persona, ma altresì l’Istituzione che egli pro tempore rappresentava. Mi resi però immediatamente conto che già un abisso siderale divideva me e il mio collega e che a lui la mia spiegazione appariva soltanto un modo per giustificare quel che per lui era ingiustificabile.
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05 Marzo 2012, 12:37