19 Luglio 2009, 00:57
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Felice Cavallaro, inviato de “Il Corriere della sera”, ha incontrato e conosciuto il giudice Paolo Borsellino. A diciassette anni di distanza, ricorda il magistrato ucciso dalla mafia in via D’Amelio, e soprattutto ne restituisce l’immagine di un uomo che cercava solo di fare al meglio il proprio lavoro. Ecco il racconto dalla sua viva voce di cronista.
La polemica di Sciascia
“Ricordo che fu Rocco Chinnici, che già conoscevo, a presentarmi Paolo Borsellino. L’occasione fu l’istituzione del pool antimafia nel quale Chinnici inserì, oltre a Borsellino, anche Giovanni Falcone. Scelta che fu dettata dalla esperienza che i due magistrati avevano acquisito durante il loro lavoro e impegno. Da allora nacque una reciproca stima, certamente da pare mia e credo che fosse anche ricambiata dallo stesso Borsellino. Se devo raccontare un episodio che lo riguarda, mi viene in mente senza dubbio il vespaio di polemiche sorto all’indomani di un articolo di Leonardo Sciascia pubblicato il 10 gennaio 1987 sul Corriere, sul tema dei professionisti dell’antimafia. Un fatto su cui ci confrontammo a lungo. Ritengo che quel pezzo di Sciascia fosse indovinato, ma con un esempio sbagliato. In realtà, nemmeno Borsellino e Falcone ebbero mai degli screzi e delle incomprensioni con Sciascia, perché non potevano pensare che proprio lo scrittore siciliano dal quale avevano attinto e appreso il concetto e il valore dell’antimafia, potesse poi stare dall’altra parte. Borsellino e Sciascia ebbero poi modo di incontrarsi e chiarirsi a Marsala, a pranzo in un ristorante. Incontro a cui però non venne dato risalto. Due anni dopo la morte di Sciascia, nel luglio del ’91 invitai Borsellino a Recalmuto, paese d’origine di Sciascia e mio, per parlare delle questioni più dibattute di quel momento e ovviamente anche delle polemiche seguite all’articolo in questione. Borsellino si presentò pomeriggio in una piazza gremita, in compagnia di Falcone e assieme spiegarono che con Sciascia non ci fu mai uno screzio, una incomprensione e che si erano chiariti in quell’incontro a Marsala. Quell’episodio rafforzò in me l’idea che Sciascia aveva sbagliato esempi, con dei giudici così grandi, ma la questione rimaneva reale e concreta”.
Falcone sotto tiro
“Ricordo quando Falcone venne ostacolato nella corsa come consigliere istruttore. Incarico affidato invece a Meli. Senza dimenticare poi l’accusa rivolta sempre allo stesso Falcone di tenere i segreti nei cassetti e non valicare la politica. In una trasmissione del Gr1, ‘Radio anch’io’, Borsellino spiegò l’equivoco dei segreti tenuti nei cassetti, dicendo che i magistrati perseguono reati sulla base di prove e non invece l’immoralità e la scorrettezza politica. Perché sono questioni che attengono invece alla società civile”.
Borsellino e i giornalisti
“Con i giornalisti c’era la massima correttezza reciproca – racconta ancora Felice Cavallaro –, era disponibile alla comprensione. Borsellino aveva però riserbo per i passaggi essenziali di una inchiesta, preoccupandosi della fuga di notizie. Alla fine si era creato un rapporto molto schietto e leale tra giudici e cronisti. Tra alcuni nacque una vera e propria amicizia, come tra il giornalista La Licata e il giudice Falcone, tanto che insieme scrissero un libro”.
Via D’Amelio
“Il giorno di via D’Amelio fu terribile – continua Cavallaro con la voce che diventa grave e pensosa -. Ricordo che in quei giorni stavo lavorando a un nuovo libro con il giudice Ayala che si doveva occupare dell’introduzione. Quella domenica pomeriggio doveva venire a casa mia. A un certo punto da casa mia in centro a Palermo, sentii un boato. Andai in terrazza e mi accorsi di una nuvola densa di fumo nero, dalle parti della Fiera del Mediaterraneo. A quel tempo Ayala abitava lì vicino. Lui era in ritardo. Corsi subito a chiamarlo, direttamente a casa. Mi rispose la moglie e mi disse che anche loro avevano sentito. Allora corsi subito in moto e in cinque minuti arrivai lì. Arrivai in via D’Amelio. C’era anche Ayala. La scena davanti ai nostri occhi era terrificante. C’era ancora il fuoco e il fumo. Non si capiva niente, tra lamiere e corpi. Fu lì che a un certo punto ci trovammo al centro della Storia, senza saperlo. Erano già trascorsi tre quarti d’ora dall’esplosione e la portiera posteriore della macchina di Borsellino era spalancata. Lì, tra il sedile anteriore e quello posteriore c’era la sua borsa. A un certo punto un agente in borghese la prese e vedendomi, forse mi credeva un uomo della scorta di Ayala, me la diede in mano. Solo pochi attimi. Mi girai verso Ayala, vedendo un carabiniere in divisa, fu lo stesso Ayala che disse: ‘Ma questa dovrebbe tenerla lei’. Fu così che la consegnammo. Quando fu ritrovata mancava l’agenda rossa di Borsellino. Il resto è storia dei nostri giorni, di un’inchiesta ancora aperta. Né io, né Ayala ricordiamo il volto o il nome di quel militare. Cosa che abbiamo dichiarato anche negli interrogatori a Caltanissetta”.
Stragi e misteri
“Dopo quelle stragi, Capaci e via D’Amelio, ma anche a partire dal fallito attentato alla casa di Falcone all’Addaura, la mia idea – spiega il giornalista del Corriere della Sera – è quella della presenza di una struttura deviata dello Stato, e a una parte dei servizi segreti. Di una mafia usata come braccio armato. L’Italia è un paese che ha vissuto periodi ed episodi simili. Ma anche altri Paesi, penso oggi ai giornalisti uccisi in Cecenia e ai presidenti americani assassinati da non si sa bene ancora oggi da chi e per conto di chi. Oggi parlare col senno del poi sarebbe facile. Eppure in quei giorni, a poca distanza di tempo dalla strage di Capaci una cosa del genere sembrava impossibile. Dopo però no. Dopo ci si rese conto che Palermo era una città in cui si rischiava giorno per giorno. Ricordo che negli ultimi tempi, giorni prima della sua morte, incontrai Borsellino nei corridoi deil palazzo di Giustizia: era strano, inquieto, turbato. Si capiva che qualcosa non andava. Guardava con gli occhi bassi il pavimento. L’ultimo nostro incontro fu un’intervista per il mio giornale. Era il 22 giugno, a un mese dall’assassinio di Falcone. Mi diede appuntamento alle 7.30 del mattina e restammo a parlare fino alle 9 al Palazzo”.
La fiducia di un giudice
“Diceva: ‘Un giorno questa terra sarà bellissima’. È questa l’immagine che ho in mente quando penso a Borsellino – afferma Cavallaro -. Parole che forse nascondono la certezza di chi sapeva che quel giorno non ci sarebbe stato, ma svelavano la fiducia che sarebbe venuto. Ecco lo racconterei così io ai giovani il giudice e l’uomo Borsellino. Al di fuori del cliché sbagliato dell’eroe. Era un uomo che cercava di fare al meglio il proprio lavoro. Io domenica (oggi, ndr) sarò in via D’Amelio a ricordare. Perché credo che la memoria si coltivi anche così, con la presenza”.
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