01 Maggio 2014, 08:00
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“Se uomo ama donna più di birra gelata davanti a tv con finale Champions forse vero amore, ma non vero uomo”. Questo è il calcio raccontato da Vujadin Boskov, narrato attraverso l’ironia, il sorriso beffardo e l’umanità di un personaggio divertente; bonariamente sopra le righe come un nonno un po’ bizzarro, era il cantore di un calcio balcanico da sempre capace di intrecciare le storie del rettangolo verde con quelle dei suoi interpreti al di fuori di esso.
Con il suo accento inconfondibile e quel sorriso a brillare negli occhi, Vujadin Boskov ricorda uno degli indimenticabili protagonisti di “Train de Vie”, con lo stesso spirito zigano ad accompagnare il rotolare del pallone sul campo di calcio, palcoscenico di quello che era una volta lo sport più bello del mondo e del campionato più bello del mondo. Boskov è stato uno dei protagonisti più amati di un calcio che ancora oggi noi, bambini di allora, rimpiangiamo e di cui vediamo smarrire ogni traccia nella pallida imitazione priva di anima che ci viene offerta dalle televisioni.
Il calcio di una volta ed i suoi interpreti, prima uomini e poi giocatori, consacrati dalle loro gesta in campo e non da ciò che erano in grado di offrire a beneficio delle telecamere e di coloro che il tempo ha trasformato da tifosi in telespettatori. Campioni che correvamo ad imitare per strada: bastava un pallone, due pali improvvisati, la “tocca” per “fare” le squadre e tutto il resto era passione e fantasia; al primo rimbalzo ricominciava la magia che animava pomeriggi infiniti. Non vi erano barriere, tutti parlavamo la stessa lingua e le dispute duravano lo spazio di un pomeriggio, il tempo di una protesta per un rigore e si tornava immediatamente compatti a difendere quel territorio costantemente minacciato da macchine, minacce dei residenti o da saracinesche inopinatamente sottratte al loro destino, per noi naturale, di porta.
Era un calcio vissuto e non parlato, immaginato la domenica pomeriggio alla radio in attesa dell’appuntamento sospirato una settimana intera da generazioni di adolescenti. Scoccate le 18.10 arrivava il momento di 90° minuto, di Paolo Valenti, dei suoi inviati dai campi e di quella sigla memorabile che irrompeva nelle case come un tornado, imponendo il silenzio alle famiglie riunite come accadeva un tempo per celebrare quel rito domenicale tramandato da padre in figlio con la sacralità riservata alle cose importanti. Uno dopo l’altro, come zii che tornano a far visita ai nipotini, toccava a loro narrare la domenica calcistica come menestrelli erranti di campo in campo: Tonino Carino e Luigi Necco, Cesare Castellotti e Carlo Nesti, Maurizio Calligaris e Ferruccio Gard, Roberto Scardova e Marcello Giannini, Franco Strippoli e Giorgio Bubba.
Erano personaggi reali di cui potevamo cogliere l’accento, il tifo a stento celato dietro una patina di “professionalità” appena accennata capace, però, di esprimerne l’umanità a dispetto dei bellimbusti anonimi che oggi, come replicanti, raccontano un calcio privo di poesia, vivisezionandone ogni aspetto al microscopio a beneficio di voyer e non più di tifosi. Questo era il tuo calcio, ed oggi noi ne sentiamo la mancanza: il calcio della domenica pomeriggio e della contemporaneità lontano dagli “spezzatini” imposti dalle TV, quei novanta minuti erano una parentesi intensa ed insostituibile di una vita altresì piena e non un oppiaceo cui affidare l’oblio della noia e della mancanza di altre e reali passioni.
Novanta minuti ad immaginare quei ventidue protagonisti in campo di cui conoscevamo ogni statistica, ogni gesto tecnico, ogni caratteristica a tal punto da immaginarne lo scatto, il dribbling, il cross, l’incornata del centravanti o il brutale intervento dello stopper a strozzare in gola quel grido di gioia e di liberazione da una sofferenza per un risultato che tardava a sbloccarsi. Era il calcio dei treni speciali, delle trasferte oceaniche, dello zainetto con il pranzo preparato dalle mamme pronto per essere condiviso con i compagni di avventura, anche sconosciuti, perché lì, lontano da casa, eravamo tutti fratelli. I padri accompagnavano i figli allo stadio, in casa ed in trasferta, a perpetuare generazione dopo generazione un passaggio di testimone in grado di assicurare che la squadra non fosse mai lasciata sola.
Il calcio delle famiglie allo stadio, dei bambini sulle gambe dei genitori sui gradoni e non degli spettatori schedati e degli ultras tesserati; di chi per farsi onore doveva metterci la faccia e per fare il “leone” non era sufficiente una tastiera sul divano di casa. Era un calcio vivace, un calcio a colori: stadi pieni, che la domenica pomeriggio traboccavano di entusiasmo con la pioggia e con il sole; teatri di epiche battaglie i cui racconti venivano tramandati di padre in figlio come segreti di famiglia inconfessabili agli estranei ed ai tifosi occasionali. Lo spettacolo era sugli spalti: tamburi, fumogeni, striscioni, bomboni; ne sentivamo il richiamo da lontano e mentre venivamo risucchiati in quella bolgia, nel petto rimbombava sempre più forte il battito di un cuore mai sazio di quelle emozioni. Uno dopo l’altro salivamo i gradini con sempre maggior frenesia ed all’ingresso non guardavamo il campo ma alzavamo gli occhi sugli spalti per lasciarci rapire dai colori di quel rituale ormai familiare.
La curva di casa, poi il settore ospiti ed i loro colori; il rispetto oltre la rivalità per chi condivideva la nostra stessa passione ed i sacrifici nell’attraversare l’Italia per seguire la “maglia”. L’Italia del tifo appassionato, orgoglioso portavoce di un senso di appartenenza ormai smarrito e di radici ormai dimenticate; dell’attesa per un derby lunga un anno; delle amicizie e delle rivalità, della violenza e del coraggio, degli sfottò e degli arbitri cornuti. Il calcio degli striscioni che esprimevano il genio italico a dispetto dei rigurgiti ipocriti di perbenisti che oggi hanno inventato la discriminazione territoriale dove prima c’era solo il campanile e la tradizione. Dopo aver respirato l’aria di festa e di tensione ed aver ammirato i colori sugli spalti finalmente volgevamo lo sguardo verso quel terreno verde su cui erano schierati i giocatori come truppe pronte alla battaglia; orgogliosi portabandiera di una città, dei suoi simboli, dei suoi colori e della sua storia.
Vi erano i numeri tradizionali, il pallone era bianco con inserti neri e le scarpe rigorosamente nere; per distinguersi occorreva talento e personalità, non c’era spazio per le creste, i ciuffi, i cerchietti, i tatuaggi e gli scarpini fluorescenti che oggi tentano di dare un tocco di colore ad un calcio spento, pallido, malato, moribondo. Era il calcio di uomini burberi, in campo pochi fronzoli e niente moda; chi faceva il personaggio poteva permetterselo perché lo era nella vita, prima ancora che in campo, in un periodo in cui essere controcorrente era una scelta coraggiosa e non una tendenza a beneficio del gossip e delle telecamere. Un calcio romantico in cui i veterani mostravano baffoni come un generale ostenta le mostrine sul petto; meritato premio conquistato sul campo dopo mille battaglie e non attraverso i giochetti di un procuratore furbetto.
Era il calcio dei Presidenti che erano prima di tutto tifosi: da rispettare per il loro impegno, per la loro passione, ma non da ringraziare: eravamo tutti tifosi, noi e loro, e non c’era motivo di profondersi in servili genuflessioni. Quello di oggi non è più il tuo calcio, zio Vuja: ha perso la tua ironia tipicamente slava; si prende troppo sul serio e non comprende che dietro le tue memorabili battute non c’era solo una grande esperienza di sport, ma una profonda conoscenza della vita e delle sue regole. Il tuo faccione sorridente e le tue battute impresse nella memoria sono ancora vivi negli amanti più nostalgici di questo sport e nei tuoi tifosi, in quella gradinata sud da sempre covo di passione e di colore.
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01 Maggio 2014, 08:00