L’amore di Igor

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23 Agosto 2013, 06:34

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Magari nella vita funzionasse come nel calcio. Perdi una figlia, ti nasce un figlio: uno a uno e palla al centro. Nel caso, il cammino di un uomo buono e coraggioso come Igor Budan sarebbe facile da raccontare, adesso che è nato Aron, dopo la morte della sua bambina, Amber, nel luglio di una estate in nero.
La vita e la morte non vanno così. Il dolore di ieri non si pareggia con la gioia di oggi. Tutti e due, dolore e gioia, resteranno su pianeti diversi, saranno emisferi dissimili e vicini nel cuore di Igor, di sua moglie e della sua famiglia.

Dunque, non raccontiamola con metafore calcistiche, le stesse stampelle su cui abbiamo osato appoggiarci, celebrando il ritorno al gol di Budan sul campo (accadde al ‘Tardini’) come una rivincita, come una consolazione, come se il pallone e la mutilazione potessero parlare la stessa lingua. Se si parlano, succede a fatica nelle storie di carta dei giornalisti senza fantasia. Il lutto azzera la capacità inventiva, ammutolisce. Per un cronista l’equazione di salvataggio è immediata: uno a uno. Palla al centro.

Questo è il momento di stringerci a Igor, di abbracciarlo e dirgli che gli vogliamo bene e che, sotto qualunque stella, il suo nome illuminerà il nostro cuore di aspiranti uomini.

Ci sono giocatori di pallone che passano. Per decenni, calpestano l’erba senza lasciare una traccia. Onesti faticatori, o infingardi che si nascondono tra le zolle. Transitano nella via degli almanacchi con facce qualunque e maglie scolorite. Infine, scompaiono dall’orizzonte agonistico ed è come se non ci fossero mai stati. Ci sono giocatori di pallone che non si estinguono. Si dividono in due specie. La razza dei fuoriclasse non offre condivisione, dispensa ammirazione. Messi è Messi – caro aficionado azulgrana, rassegnati – un patrimonio dell’umanità. Per quanti cori si levino dalle curve del Camp Nou, egli apparterrà eternamente alla storia, non a una squadra, seppure sublime.
La razza delle bandiere (che talvolta stranamente si incrocia con quella dei fuoriclasse) forma la quintessenza del Campanile. La bandiera rappresenta gli interessi del tifoso nella lotta. Quando segna, quando protesta, quando parlamenta con l’arbitro, per un naturale transfert, vengono distillate le amarezze, le gioie e le rabbie di un intero stadio. La bandiera è il sindacalista, il giustiziere designato di un popolo adorante.

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Poi ci sono gli uomini veri. Giocano a pallone, però potresti incontrarli altrove: in un libro, seduti al bar, sul treno, mentre passeggiano con un cane in riva al mare, o rimangono in silenzio con uno sguardo che intende qualcosa. In qualche occasione, recano sulle spalle una maglietta, un numero o un nome. Non sono lì, sul prato, per segnare o per inventare assist. Hanno un’altra missione: riflettono in ciò che fanno un esempio da seguire. E da ricordare.

Certi studenti rammentano quel professore che spiegava Pascoli e alludeva ad altro, più in là, consegnando alle orecchie dei liceali una grandezza che non dormicchiava nella pagina di nessuna antologia. Certi soldati non si separano mai dalla voce dei loro capitani valorosi. Certi tifosi non scorderanno una messe di centravanti, o terzinacci, o portieri che si impegnavano e intanto, ai margini della mischia, contrabbandavano, con la scusa del campionato, lo spessore di indimenticabili comandamenti.

Igor Budan, attaccante di peso, discreto macinatore di reti, ci ha mostrato come affrontare la prova suprema: la perdita di un figlio. L’ha fatto con i suoi occhi, con le sue parole, con la sua tenuta da campione esistenziale. Non sarà mai uno a uno con la morte, nemmeno per questa vita che nasce. Ma noi possiamo amare ancora – è l’invenzione che rompe il silenzio –, possiamo recitare il nostro amore alle persone che amiamo, prima che sia troppo tardi. Possiamo dire a Igor che gli vogliamo bene e che siamo felici della sua felicità. La sua figurina luminosa – Igor Budan, centravanti, uomo vero – rimarrà nell’album, proprio lì, accanto alle cose e alle persone più care.

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23 Agosto 2013, 06:34

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