13 Dicembre 2014, 07:49
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Ho un vago ricordo del primo morso e della prima arancina al burro, come qualcosa sospeso in una nuvola, come una felicità che non si può definire, ma c’è. Però so che, ogni volta, si rinnova il miracolo della santa unione tra il palato e il corpo mistico della frittura.
Non sembri una bestemmia. Ogni volta è come accendere l’interruttore di una macchina del tempo. Addentando un’arancina al burro fatta bene – impresa ormai non semplicissima, a Palermo – riappare per incanto mia nonna materna, Caterina. Fu lei a iniziarmi al culto. Di domenica, per prima colazione, mi imbandiva la tavola con “cinque arancine al burro cinque” del Bar Alba. Né mi suonava se fuori luogo, alla fine del pasto, aggiungere una porzione di budino al cioccolato che la nonna cucinava benissimo. Rammento l’ansia del risveglio domenicale, specialmente nelle giornate di sole, quando ogni ora di sonno ci appariva, da bambini, alla stregua di un insopportabile spreco. Dovevamo giocare, correre e, in definitiva, amare. Dunque non li capivamo i grandi che si lamentavano perché non dormivano abbastanza e addirittura si concedevano dopo il pranzo un blasfemo “riposino”.
E mentre la ricostruisco quell’ansia, metto a fuoco che aveva un fortissimo legame con una cristallina gioia di vivere, nella promessa del giorno di festa che si apriva con “cinque arancine al burro cinque”. Talvolta al Bar Alba ci andavamo a piedi: la clientela rimaneva un po’ sorpresa nell’osservare il bambino che ero alle prese con la miracolosa cinquina, beninteso, con l’ausilio di una minuscola forchetta argentata che l’etichetta esigeva. Abbuffarsi sì, con educazione. In seguito, l’arancina divenne un contrappunto inseparabile. Sospetto di non essere il solo dell’ampia famiglia dei ghiottoni-grassoni. Nel corso delle mie non poche esperienze gastronomiche, portate avanti per esclusivo amore della scienza, ho notato le implicazioni terapeutiche del prodotto, che prescriverei a tutti, già da giovanissimi. Fa male alla salute, specialmente nell’abuso, però ogni chicco di riso accarezza l’anima.
Potrei anche portare prove di evidenza scientifica a riguardo e sostenere il confronto. Racconterei nel caso, la storia di quel tale, preside di facoltà, che celebrò le esequie di un collega con una faticosissima e appassionata orazione laica. Singhiozzava quasi, nel tracciare il profilo dell’amico estinto. Il cuore non gli reggeva, aveva perso parola, sonno e appetito, per il lutto. Alla fine della messa, lo intravedemmo nel bar vicino alla chiesa. L’inconsolabile uomo di cultura stava propriamente bevendo (neanche masticava) un’arancina al burro, con un’espressione di consolidata beatitudine. Non era ipocrisia: era, appunto, terapia. E potrei citare altre circostanze che comprovano il valore di un tale misconosciuto presidio psicosomatico. Se al tavolo dei grandi della terra – così mi piace pensare – ci fosse un’arancina in più, chissà… Sì, al burro e non “accarne”. E’ una mia fissazione da fanatico. Sarà stato per via della religione a cui mi iniziò nonna Caterina.
C’è un problema, oggi, a Palermo, le arancine sanno scolpirle in pochi fini cesellatori (che non cito, per non turbare la concorrenza nel sabato al culto consacrato). C’è ancora qualcuno che brilla nell’antica arte del condimento abbondante e della frittura leggera, gli altri annegano la bellezza in un sapore che non sa di niente, in una quantità che nasconde il gusto, in un fritto che non offre poesia e che ci lascia il rimpianto dell’arancina perduta. Ecco perché i palermitani non sorridono mai: per mancanza di terapia. E vogliono cambiare invariabilmente il sindaco pro tempore, quando forse sarebbe il caso di concentrarsi sui rosticcieri.
Nessuna polemica, questa è solo una lettera d’amore nel giorno di Santa Lucia. Amare vuol dire anche mangiare, nutrirsi, trovare in ogni cosa un sapore unico. Amare significa perfino pubblicare un “pezzo” del genere. Anche i lettori – nella dose quotidiana di lutti, morti e dolore che gli tocca – hanno diritto, poverini, a un morso di felicità.
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13 Dicembre 2014, 07:49