23 Maggio 2012, 20:48
2 min di lettura
C’è tutta la Sicilia. Ci sono le vittime e gli amici. I magistrati e politici (anche quelli che nel tempo si sono scambiati l’abito). Ci sono persino i cantanti che si struggevano ai piccoli grandi amori perduti in gioventù e i giovani che invece non sentirono l’eco spaventosa di quelle bombe. E nemmeno le prime diffusioni in radio di quella canzone romantica.
C’è tutta la Sicilia, per le strade di Palermo. Tranne la sua guida. Messa in un angolo a guardare la celebrazione, messa in disparte da un’accusa pesante. Più pesante oggi, che sono passati vent’anni, da quel giorno che sembrò cambiare questa terra.
Sembrò. Perché a pensarci bene, il vero esempio di quanto, oggi, siano attuali le celebrazioni per la strage di Capaci, è tutto in un’assenza. L’assenza. Quella del presidente della Regione Raffaele Lombardo. Il massimo rappresentante, anche fuori dai suoi confini, di un’isola contraddittoria.
Un’isola che scopre, a vent’anni da quello sgomento, a vent’anni dalla reazione di cuore e pancia della sua gente, di non essere in grado di eleggere, ancora una volta, un “capo” che possa, al netto delle verità processuali che arriveranno chissà quando, chissà come, presentarsi di fronte al dolore delle vittime e degli amici, alla retorica dei politici e persino agli stornelli dei cantastorie, con “le carte a posto”. Senza alcun imbarazzo.
Ancora una volta. Perché se Lombardo non c’è, chi l’ha preceduto è addirittura in carcere. E l’accusa ha sempre a che fare con la mafia. Meglio ricordarlo. Perché le celebrazioni per l’eccidio di Capaci sono state troppo spesso pulpiti per ricordare quanto grande fosse la figura di Giovanni Falcone. Al punto da dimenticare, invece, quanto faccia schifo la mafia. Quanto Cosa nostra abbia sporcato e continui a inquinare la vita normale dei siciliani. Quanto freni la loro voglia di cambiare.
Così, appare ormai quasi normale che il governatore, pochi giorni fa, dica candidamente in conferenza stampa: “Non è vero che Maria Falcone non mi ha invitato alle commemorazioni. Sono io che non vado, perché un presidente che ha ricevuto un’accusa per mafia metterebbe in imbarazzo i presenti”.
Una frase pronunciata, ne siamo certi, vogliamo esserne certi, con lo spirito di chi è sicuro di essere estraneo a quelle accuse, certo. Ma quelle parole non fanno che propagare, in qualche modo, l’eco, sconosciuta a tanti ragazzi, di quelle bombe al tritolo. Un’assenza che esplode in silenzio. Tra gli assessori antimafia e i cantanti degli amori perduti. Tra i tecnici che fanno politica e i politici in preda, tra una lacrima e una faccia contrita, alle prove tecniche di nuove alleanze. Tra i giovani che coltivano la propria voglia di conoscere quegli anni, attraverso scivolose fiction infarcite da reclame assordanti. Quando invece, forse, per una volta, servirebbe spegnere tutto, le canzoni e le parole, i racconti e i rimpianti. E guardare nell’angolo. Ascoltare il silenzio. Figlio dell’imbarazzo. E dell’assenza. E convincersi, infine, magari già alle prossime elezioni, che è davvero, davvero, arrivato il momento di cambiare.
Pubblicato il
23 Maggio 2012, 20:48