Le lacrime sulla “collina del disonore”

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21 Giugno 2010, 16:01

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Salii per la prima volta a Pizzo Sella molti anni fa. Lassù era sbarcato Jonathan Coe, scrittore inglese, per piantare un albero, segno di speranza e di riscatto. Ero un giovane cronista preoccupato. Troppo avevo sentito dire circa la “collina del disonore”. Mi sarei aspettato di incontrare loschissimi ceffi, tipacci con svariate forme di anelli al dito e una parlata da mafiosi nei film americani che di mafia trattano.  Perciò rimasi sorpreso quando, completata “l’acchianata”, cominciai a discutere con  individui normali, perfino gentili.
E costoro mi raccontarono una strana storia: una vicenda inverosimile di case comprate in buonafede e sottratte dalla confisca, nonostante non ci fosse ombra alcuna sull’atteggiamento degli acquirenti che avevano rispettato le regole. Era lecito, almeno, dubitare.

Da cinque anni, percorro le strade di Pizzo Sella ogni giorno, in forza di un legame personale unico, uno di quei legami che sfociano in promesse assolute e corrisposte. Per questo, dai tempi di Coe, non ho scritto più nulla sull’argomento. Sarebbe stato scorretto. Se rompo i sigilli della discrezione adesso, è solo per offrire una semplice testimonianza da cronista, giocando a carte scoperte e avvertendo il lettore.
Cosa ho visto dalle finestre di una casa piantata sulla collina cosiddetta “del disonore”? Ho osservato la sofferenza di una famiglia onesta che aveva risparmiato fino all’ultimo centesimo per comprare una villetta sulla montagna sbagliata. Dobbiamo pensare che l’unica sofferenza degna di attenzione, per cui muoversi e combattere, sia quella dei diseredati, come suggerisce un commento su Livesicilia? O esiste pure una sofferenza dei benestanti, magari buoni, che assistono al rogo pubblico di un sogno senza colpa, né dolo?
Ho annotato in un taccuino immaginario la fatica di gente perbene, l’ho vista dibattersi per sfuggire all’infamia dell’aggettivo “abusivi” (strani abusivi con le carte in regola) e lottare per tentare di diffondere le ragioni di un diritto alla sopravvivenza al cospetto di una città spesso piena di pregiudizi e priva di una reale conoscenza della questione. Li ho visti, molti residenti di Pizzo Sella, mentre spiegavano ai quattro venti che, sì, lo scempio ambientale c’era ma che loro erano stati raggirati come gli altri. E che sarebbe stato  meglio, piuttosto che dissanguarsi in una lotta di carte bollate e sangue col Comune, affrontare insieme il problema della riqualificazione della zona. Quale ingegno fantasioso potrebbe vagheggiare la demolizione di tutte le villette con successiva raccolta del materiale di risulta? Con quali soldi? Con quali prospettive? Intanto qualcuno è morto, lassù. Qualcuno è impazzito di dolore, e il conto in banca non è stato sufficiente, non ha tenuto lo strazio fuori dalla porta.

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Poi è piombata, in mezzo ai discorsi, la sentenza che ha sancito un principio abbastanza ovvio. Se non c’è una condotta fraudolenta, se c’è la buona fede, non può esserci una punizione. La confisca è una punizione, è la sottrazione della sicurezza quotidiana, è la minaccia che rende pericolante il tetto sulla testa.
Ci sono state lacrime a Pizzo Sella, tra gioia e incredulità, dopo il verdetto dei giudici. Il lettore valuterà se le lacrime che bruciano sulla guancia per la fine di un incubo ingiusto siano sempre uguali, o se sarebbe più umano distinguerle in base al censo e al colore degli occhi. E sarà ancora compito del lettore giudicare le intenzioni di chi ha scritto. Da parte mia, credo di avere adempiuto soltanto al dovere di cronaca, da una posizione inconsueta.
Forse sarebbe il caso di ricominciare dall’albero di Coe.

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21 Giugno 2010, 16:01

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