10 Gennaio 2021, 11:54
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Ora che ci siamo lasciati alle spalle la Lotteria Italia con il suo vortice di milioni, possiamo finalmente tirare un sospiro di sollievo. Non abbiamo vinto niente. Neppure un centesimo. Almeno io, e così spero voi. Perché vero è che uno sogna per tutta la vita di diventare ricco dall’oggi al domani sperando in una botta di buona sorte (diciamola così). Ma, non sia mai, metti caso che il colpo della fortuna dovesse arrivare davvero. Attenzione, state bene in guardia, perché l’improvvisa ventata di benessere potrebbe portare una montagna di guai talmente seri da farvi pentire di essere nati. Del resto, non si dice da sempre che i soldi non fanno la felicità? Verità indiscutibile. Anzi, se vogliamo dirla per come si deve, la ricchezza può perfino risultare una terribile disgrazia. La vita cambia, certo, ma non è detto che cambi in meglio.
Ne sanno qualcosa alcuni di quei palermitani che nella metà degli anni Novanta si ritrovarono dall’oggi al domani con il conto a nove zeri. Proprio così. Dalle pezze al sedere ai miliardi in banca. Le cronache del tempo si limitano a ricordare che da un capo all’altro della città piovve denaro a catinelle come se lassù qualcuno avesse aperto le porte del caveau celeste canalizzando il flusso di miliardi proprio su Palermo, e proprio su quelle borgate che storicamente, quanto a miseria, non hanno mai temuto confronti con nessuna. Totocalcio, Gratta e Vinci, Totogol, Superenalotto. Vincite a raffica. Cose mai viste. Secondo un calcolo approssimativo, furono distribuiti una ventina di miliardi di lire. Ma non tutti poterono festeggiare. Partiamo dalla vigilia di Natale del 1994. A Cruillas un anonimo becca gli otto numeri del Totogol e intasca tre miliardi e settecentodieci milioni di lire. Nel quartiere si chiacchera, non si sa con quanto fondamento, e il fortunato viene subito sgamato. Nome e cognome sono sulla bocca di tutti. Ma lui si chiude in casa e sparisce con la moglie. Letteralmente. Nessuno li vede più. Che fine hanno fatto? Resterà un mistero.
Pochi mesi dopo, un sabato sera, a Bonagia centrano un Cinque+Uno da quattro miliardi. Dei vincitori si sa tutto. Sono una società di cento scommettitori, intascano quaranta milioni a testa. Un po’ di anime respirano e molte situazioni si sistemano. Non succede nulla di strano.
Più problematica la storia di Matteo Di Pisa, un pensionato dell’Uditore che compra un Gratta e Vinci nella tabaccheria di Federico Campanella, nella piazzetta di fronte alla chiesa, e vince la bellezza di un miliardo. Sparano i mortaretti, si organizza una festa in strada. Racconta lui stesso, tra lampi di incredulità, sotto i flash dei fotografi: “Mentre grattavo ho scoperto di avere quattro assi. Un conoscente che mi stava accanto è saltato in aria: Matteo, gridò, hai vinto cento milioni. Ma c’era un’altra casella, ho continuato a grattare e ho pescato il jolly. Allora il mio amico quasi è svenuto. Minchia, Matteo, un miliardo vincisti”.
Smaltita la sbornia, Di Pisa si offre ai cronisti, assicura che donerà cento milioni ciascuno ai suoi otto figli e, consigliato dal solito conoscente che ne sa più degli altri, si affretta a depositare il biglietto presso uno studio notarile. Ma il giorno in cui il Gratta e Vinci miliardario viene prelevato da un’agenzia di sicurezza per essere portato alla Cassa di Risparmio, delegata al pagamento, il furgone che lo trasporta è preso d’assalto dai rapinatori e il tagliando prende il volo. Facile immaginare la disperazione del pensionato. E ora che si fa? C’è un po’ di maretta, il biglietto esiste e lo hanno visto in tanti, è stato pure fotografato, ma i funzionari dei Monopoli di Stato si pongono il problema. Non ci sono precedenti, e mentre si studiano svariate soluzioni, Matteo Di Pisa, persona umile ma di cervello fine, spiazza tutti tirando fuori la fotocopia. “Eccolo qua il biglietto”. E’ solo un pezzo di carta ma, incredibile a dirsi, a Roma prevale il buonsenso e dopo un’ingarbugliata procedura che dura qualche mese, decidono di pagare la vincita al pensionato che, come promesso, distribuisce il suo miliardo ai figli. Fin qui tutto a lieto fine.
Poi ci sono le sventure. Nel novembre del 1995 un falegname del Cep, Salvatore Ferrante, ha la disgrazia di centrare gli otto numeri del Totogol giocando una schedina di 1.600 lire. 1-9-13-15-19-21-22-27. Vince tre miliardi e 243 milioni. Salvatore ha avuto una vita segnata dalla malasorte. Una figlia incinta al settimo mese gli è morta in un incidente stradale, un figlio è nato con un grave handicap per il quale non esistono cure. Ferrante non ha voglia di fare colpi di testa. Vive in un’umile casa di via Parrini, nella borgata popolare, e lì resta con la moglie e il ragazzo malato. Si concede solo una spesa di qualche centinaio di milioni per amore dell’altra figlia che gli ha dato tre nipotini. Le regala un appartamento. Tutto qui. Per il resto, Salvatore continua a lavorare, come se niente fosse accaduto.
Ma al Cep la voce gira, tutti sanno dei miliardi e la fila dei questuanti si ingrossa giorno dopo giorno. Finché a casa Ferrante non bussa don Totò. Nessuno conosce nomi e cognomi e non si conosceranno mai. Neppure dopo la maledetta sera d’estate quando, tornando da Balestrate dove aveva trascorso una giornata al mare con moglie e figlio, Salvatore Ferrante viene ucciso sotto casa a colpi di pistola. Un delitto che resterà coperto dalla nebbia. La vedova racconterà di gente che si presentava in via Parrini dalla mattina alla sera, di brutti ceffi che giravano attorno al marito ringhiosi perché volevano i soldi. Non si è mai saputo niente.
Brutta fine fa anche Gerardo, un infermiere di Villa Sofia che, sempre in quei mesi, gioca 4.000 lire nel piccolo bar di piazza Sant’Erasmo centrando un 5+1 da sballo. Vince sei miliardi e va fuori di testa. Qualche giorno dopo si presenta al lavoro in giacca e cravatta, non più con la solita sgangherata 127 ma con una Mercedes fiammante da ottanta milioni. Si capisce subito che Gerardo, preso dalla botta, è incapace di gestire con un minimo di furbizia il suo nuovo status di Paperone. Non ha remore, spiffera ogni dettaglio a mezzo ospedale. É il riscatto sognato per una vita e non vuole nascondersi. Al contrario, viene preso da un’incontenibile smania di ostentazione. Lascia il lavoro, compra altre tre auto, una ciascuna per i figli appena maggiorenni, un appartamento nei quartieri residenziali per la sua famiglia e richiama dal Veneto il genero muratore che fatica per un milione e mezzo al mese.
Gerardo sottovaluta però un dettaglio: abita in corso dei Mille e quella è zona di alta mafia. Possono i boss che controllano il quartiere ignorare un simile evento? Lo schema è quello classico: vanno a trovarlo a casa con il sorriso sulle labbra e gli presentano il conto. Glielo dicono con le parole più semplici: non è giusto che tu diventi miliardario e noi restiamo pezzenti. Da noi i bravi cristiani si mettono a posto. Come? Devi darci la giusta percentuale.
Gerardo non dà peso a quella visita, ignora i messaggeri della mafia, ma da quel momento per l’incauto infermiere si aprono le porte dell’inferno. Le visite a domicilio si fanno quotidiane, sempre più insistenti, lo seguono per strada, lo chiamano al telefono. Insomma, l’infermiere finisce di campare. Finché una sera tre tipi lo bloccano sotto casa, in corso dei Mille, e lo massacrano di botte. Finisce con le ossa a pezzi e una coltellata al viso che gli procura uno sfregio permanente.
La strada è segnata. Uscito dall’ospedale, l’infermiere va in banca, preleva un miliardo tondo tondo e, come fosse la scena di un film, impacchetta le banconote, mette tutto in un borsone e lo consegna ai mafiosi. Partita chiusa? No. Per niente. Quei signori non si accontentano. Vogliono qualcos’altro. Pensa oggi, pensa domani, ed ecco arrivare puntualissima la richiesta: devi darci anche la macchina nuova. Gerardo sobbalza: la Mercedes? Ma siete pazzi? No, la vogliono davvero. E siccome i signori di corso dei Mille hanno dimostrato quali sono i loro metodi di persuasione, Gerardo è costretto a cedere. Gli regala anche l’auto nuova di zecca. Ma l’assedio non finisce. Ormai è un martellamento. Farebbe meglio a denunciare. Denunciare? No, da quelle parti non si usa. Meglio fuggire. Gerardo, moglie e figli lasciano la Sicilia di notte riesumando la vecchia 127 e vanno al Nord in casa di parenti. Resistono appena tre settimane. Troppo freddo. Troppi disagi. Niente, si torna alla base. “Non potevo resistere lontano da Palermo, il cuore mi scoppiava”, racconta Gerardo al rientro. Piange, disperato, consapevole che ritroverà i fantasmi, le notti insonni, le crisi di panico. Una mattina si affaccia al balcone di casa e si mette a gridare: “Maledetti soldi, mi hanno rovinato la vita, ho speso tutto, non ho più niente”. É la sua ultima apparizione. Nessuno vedrà più né lui, né i suoi familiari. Spariti di nuovo in una notte. Avranno forse capito che, a certe condizioni, con il gelo del Nord si può anche convivere.
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10 Gennaio 2021, 11:54