Le parole rubate di Giovanni e Paolo | E Palermo cadde nella voragine - Live Sicilia

Le parole rubate di Giovanni e Paolo | E Palermo cadde nella voragine

Un ricordo. Lenzuola bianche. Immagini che spezzano il fiato. Con una morale amara.

Il 23 maggio
di
2 min di lettura

Gli attrezzi di scena sono cose vere. La borsa del giudice Paolo Borsellino, impolverata e sventrata dal tritolo di via D’Amelio. Il pc di Giovanni Falcone, con l’ombra delle sue dita appoggiate, come se fosse accaduto un’ora fa. E, sullo sfondo, in una invisibilità sospesa ma presente, le parole che non sono state ritrovate, nell’agenda rossa, nei file del computer, e che avrebbero, forse, riscritto la storia.

‘Parole rubate’. Così il Teatro Massimo ha salutato, ieri sera, il tramonto anche di questo 23 maggio, dopo una giornata di contrapposte retoriche e di frasi rimesse nei cassetti e conservate per l’anno prossimo. E lo ha fatto con l’opera scritta da Gery Palazzotto e Salvo Palazzolo che si sono avvalsi della regia di Giorgio Barberio Corsetti e delle musiche profonde e preziose di Marco Betta, eseguite da trenta professori d’orchestra diretti da Yoichi Sugiyama. Sulla scena, un dominante Ennio Fantastichini – dolente la sua voce spezzata – capace di evocare ricordi e persone con l’alterazione dei semitoni. Un timbro arricchito da un contrappunto asmatico, da un respiro ansante che ha conferito all’interpretazione il tocco di una vicenda narrata sull’orlo di un abisso.

E sono le voragini a prendersi tutto. Il cratere di Capaci, la fossa di via D’Amelio. La platea un po’ si scompagina. La Palermo perbene, venuta qui per partecipare a un rito, si ritrova, all’improvviso, con i piedi proprio dentro una voragine da cui sale eternamente uno scomodo sentore di memorie denudate, mentre lo spettacolo incede.

Perché è questo il merito delle operazione: avere svestito di paramenti il dolore, mostrandolo per ciò che continua a essere: un tragico sasso lanciato in uno stagno che produce cerchi concentrici di lacrime, all’infinito. Lo strappo dei parenti delle vittime delle stragi, direttamente coinvolti, in carne e spirito: omaggiati, in effigie, dalla carrellata finale di volti intagliati, scolpiti dal lutto, immodificabili, ormai, come le foto di coloro che vennero assassinati. E la cicatrice – l’abisso – che si tenta di non vedere, quando il 23 maggio e il 19 luglio si riducono a monumento, retorica, lasciando in cantina, inespresso, non sillabato, il sentimento stupefatto di una innominabile perdita.

Né sollevano il cuore, precipitato nel suo strapiombo, le lenzuola bianche calate all’epilogo dai palchi del Teatro, con i dolci lineamenti di Giovanni Falcone a punteggiarle. Il sorriso di un uomo onesto, straziato in vita e santificato in morte, era, è, sarà per sempre, esso stesso, una voragine di rimpianti.


Partecipa al dibattito: commenta questo articolo

Segui LiveSicilia sui social


Ricevi le nostre ultime notizie da Google News: clicca su SEGUICI, poi nella nuova schermata clicca sul pulsante con la stella!
SEGUICI