Le scarpe di Papa Francesco

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07 Luglio 2013, 06:15

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Guardate le sue scarpe, più che i suoi occhi. I suoi occhi raccontano una dolcezza, una determinazione e forse delle ombre umane – ogni uomo, ogni sognatore, ogni Peter Pan: che sarebbero senza la propria ombra attaccata con filo e ago? – che abbiamo colto in altri occhi, con percentuali diverse. Le sue scarpe raccontano il viaggio, la vera missione di Francesco, più di ogni altra. Le scarpe di Wojtyla erano solide. Da operaio, da fabbrica e da Solidarnosc. L’anima del Papa polacco respirava nelle calzature da catena di montaggio. Dure e semplici, armi da lotta, non per scalciare. Per restare piantate al suolo con la pioggia e con il vento di anni difficili.

Le scarpe di Ratzinger rilucevano di porpora. Non alludevano al lusso materiale, come si potrebbe erroneamente concludere. Tendevano alla rarefazione spirituale di un uomo di pensiero. Erano mistiche, nel senso della ricchezza degli oggetti di chiesa che devono meravigliare, splendere e apparire preziosi, non in quanto sostanza finita: per alludere all’infinito. In ogni fattura di pregio, per negazione, si può cogliere la bellezza del volto di Dio. Proprio perché quella bellissima gemma non sarà mai perfetta come un pallidissimo riflesso della grazia a cui, indegnamente, si riferisce.

Come sono le scarpe di Francesco? Lo ha spiegato il suo calzolaio: “Hanno un taglio semplice: sono di cuoio di vitello con una tomaia liscia, senza decorazioni. Se prendi una scarpa del Papa sembra una galoscia, senza adorni ma con i lacci. Lui non vuole scarpe nuove, vuole sempre che gli ripari quelle vecchie”.

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Sono scarpe per camminare. Il passo è l’unita di misura del viaggio. Oggi non viaggiamo più, ci spostiamo. Andando da un punto a un punto, non cambiamo più. Ma non c’è vero viaggio senza mutazione. Una volta, i grandi camminatori attraversavano i continenti, solcavano i mari, scavalcavano i deserti. Per ogni ritorno c’erano capelli imbiancati, rughe e favole da riportare indietro. Spazio e tempo coincidevano. La distanza delle miglia produceva decenni di strade. Nel mezzo, c’era l’esperienza dell’incontro, della fatica e della speranza. Sono tutte suggestioni che la velocità di un aereo non consente. La tecnologia ha alleviato il peso del sudore e ci ha mutilati, privandoci di elementi di conoscenza e di comunicazione, togliendoci il ‘mentre’. Pure il mondo non esiste più, con la sua molteplicità. E’ un indistinto governato dall’uniformità del marketing. Sei ciò che compri. Ovunque.

Papa Francesco ha il carisma del viaggiatore. Di colui che si muove per trasformare coloro che trova sul suo cammino ed esserne trasformato. Un pontefice che ha chinato il capo al cospetto della folla che illuminava San Pietro per riceverne la benedizione, ha ben presente l’interazione non a senso unico. Siamo tutti fonte di benedizione reciproca. Accade un miracolo, quando le persone escono di casa per incontrarsi. Questa è una storia – la nostra storia – che non esce più di casa. Si attacca alla virtualità dei social per nutrire l’illusione del contatto, nell’istante in cui lo nega. Questa è una chiesa – la nostra, per chi ci crede – che per troppo tempo si è asserragliata nel fortino delle proprie certezze e da lì ha lasciato cadere poche occasioni di parole e gesti. La cristianità ha amministrato il suo campo di gioco, invece che cercare nuovi terreni da esplorare, non da conquistare.

Francesco, vicario di questo tempo, non desidera conquiste. Non partirà mai da Roma con la bandiera o con la spada. Non saprà mai prima cosa c’è dall’altra parte. E andrà lo stesso, come va a Lampedusa. Il suo è un dono speciale e differente. Karol è stato il Papa della perseveranza. Joseph ha cullato l’acume del pensiero. Francesco è già l’uomo della speranza: la premessa di ogni viaggio. E preferisce riparare le sue scarpe, piuttosto che comprarne nuove. La polvere delle suole non mente. Dice sempre chi sei.

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07 Luglio 2013, 06:15

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