Le scarpe e la penna di Mario | In memoria di un giornalista

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26 Gennaio 2017, 13:06

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Di Mario Francese – assassinato dalla mafia, per le sue parole vere e puntuali – ricordiamo le scarpe impolverate dalla camminata, il taccuino, la mezza sigaretta all’angolo della bocca, in piena iconografia da segugio, lo sguardo aguzzo, capace di penetrare tutte le cortine fumogene, e la mano che stringeva la penna. Lo ricordiamo così, anche se non l’abbiamo conosciuto, perché se vuoi fare quel mestiere – il giornalista – e alla fine riesci a farlo, non puoi non sostare davanti al monumento di un uomo perbene, cavandone una lezione di tenerezza e semplicità.

Ed è giusto che ci sia un monumento, sul viale della memoria siciliana, disseminata di coraggio e sacrificio. Ed è tragicamente normale che Mario Francese stia accanto a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, di fianco anche agli anonimi servitori dell’onestà che troppo spesso non entrano nel calendario degli anniversari.

Oggi – nella data del suo martirio, trentotto anni dopo – il cronista di giudiziaria del ‘Giornale di Sicilia’ è stato commemorato in viale Campania, lì dove ebbe luogo l’omicidio, con una cerimonia organizzata dall’Unione nazionale cronisti. C’erano i familiari: la vedova Maria ed i figli Giulio e Massimo, il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, il prefetto Antonella De Miro. “Il sacrificio di Mario Francese – ha detto Orlando – non è stato vano. La città gli è riconoscente e le giovani generazioni stanno raccogliendo i frutti del suo lavoro e del suo coraggioso impegno”. Negli atti processuali, è scritto nero su bianco: “Il movente del delitto Francese va ricercato nella sua attività professionale, nello straordinario impegno civile con cui egli ha compiuto una approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia verificatesi negli anni ’70”.

Ma poi è anche necessario soffermarsi sul padre, sul marito, per dare pienezza e luce ai contorni della perdita di colui che non tornò, perché fu assassinato sotto casa, mentre i suoi lo aspettavano. Il figlio Giuseppe – che non c’è più e che con la sua attività di ricerca è stato fondamentale per le indagini – ha dodici anni quel giorno. Sente sei colpi di pistola. Si precipita in strada. E vede tutto.

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Giulio è ancora un giovane giornalista. Scende dall’autobus in via Brigata Verona – sta rincasando dopo il lavoro – nota il caos. Adesso, racconta: “Mio fratello Fabio mi venne incontro e mi disse: ‘hanno ammazzato uno’”. Succede in fretta. Giulio sta per avvicinarsi, ma viene bloccato da Boris Giuliano, il tenace poliziotto che sarà assassinato pure lui da Cosa nostra. Giuliano lo guarda. Non sa che dire. Non sa come dirlo. Giulio scorge la macchina di suo padre, accanto al cadavere. E capisce. E’ la nuda cronaca di un dolore, lanciato nello stagno degli affetti, come un sasso. I cerchi concentrici che ha smosso non si sono mai esauriti.

Non solo viale Campania. Stamattina, a Bagheria, è stata inaugurata ‘la casa di Giuseppe’. Apparteneva a Giuseppe Francese, La famiglia l’ha messa a disposizione perché sia un centro di documentazione sulle vittime di mafia, soprattutto i giornalisti. (chi vuole donare libri può informarsi qui). “Ed è bello pensare – dice Giulio – che la memoria e l’impegno saranno coltivati e cresceranno nel nome di mio padre e di mio fratello”. Un altro respiro di bene in tanto male. Quando Giuseppe morì, i familiari scrissero per lui nel necrologio: “Se n’è andato. Ha svoltato in fretta l’angolo di questa vita, che lo ha segnato nell’anima, cercando lassù, nell’abbraccio paterno, la pace”.

 

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26 Gennaio 2017, 13:06

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