L’effetto Leanza salva il Pd |Adesso scatta la resa dei conti

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27 Maggio 2014, 07:02

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CATANIA – Senza i voti di Articolo 4 il Partito democratico avrebbe registrato alle falde dell’Etna uno dei risultati peggiori d’Italia. Il successo elettorale dei democratici, all’ombra dell’Elefante, ha un nome e tre cognomi: Lino Leanza-Sammartino-Sudano. I 92mila voti di Michela Giuffrida rappresentano uno choc per i pezzi da novanta del Pd che difficilmente potrà essere superato.

Durante questa calda domenica di maggio parte dei catanesi ha preferito, al grigiore delle urne, lo scintillio del mare di San Giovanni Li Cuti e la frescura delle gallerie dei numerosi centri commerciali che hanno preso il posto di periferie e agrumeti.

Tutti gli altri, quelli che hanno votato, hanno riscritto la storia degli appuntamenti elettorali. Con una clausola: senza Lino Leanza il Pd non c’è. Senza Michela Giuffrida, che ha conquistato il seggio portandolo in dote al potente signore di Maletto, i democratici non avrebbero avuto neanche l’illusione di eleggere un catanese. Il discorso non cambia se si parla di amministrative, emblematico il caso Motta S Anastasia: il Pd, lacerato da contrasti insanabili, non ha presentato il simbolo, due democratici dono scesi in campo spianando la strada al candidato di Articolo 4. Peggio ancora ad Aci Castello: il Pd ha corso contro il Megafono di Crocetta favorendo la vittoria al primo turno dI Filippo Drago, sostenuto dal centrodestra.

E adesso il Pd è più spaccato per mai. I duri e puri, quelli che vengono dal Pci e sono stati nei Ds, oggi si ritrovano impegnati in un rocambolesco giro di parole per spiegare ad uno dei pochi “uomini di partito” candidati, Giovanni Barbagallo, come sia stato possibile che i 5mila voti di Catania non corrispondano neanche a un decimo degli iscritti alla Cgil.

Nessuno lo ha chiesto ad Angelo Villari, signore del sindacato che è stato tra i primi ad arrivare -sorpassando pure Raffaele Pippo Nicotra- all’Hotel Nettuno durante la conferenza stampa di festeggiamento di Michela Giuffrida. Vero è che se esistesse un partito “democratico”, uno con la storia di Villari non sarebbe “a spasso”, ma chiamato a ruoli di primo piano, anche e soprattutto regionali. Sembra finito il tempo in cui il sindacato era un serbatoio di voti per il Pd.

E Bianco che fine ha fatto? Non è facile mimetizzarsi, attraverso un comunicato stampa, nel “siamo tutti renziani” e “abbiamo vinto”. Il sindaco di Catania, che ha stracciato il centrodestra dopo 13 anni, ha però un’attenuante che corrisponde a una dote rispetto al camaleontismo democratico catanese. Vero è che anche Bianco deve la poltrona di Palazzo degli Elefanti a Lino Leanza, ma il peso politico di “Enzo” non può essere letto nei 5mila voti di Barbagallo, cioè il candidato che sosteneva più o meno ufficialmente. Il sindaco conferma che non può trasferire ad alcuno i consensi personali che da sempre hanno confermato la sua popolarità. Bianco non ha la “capacità” di Firrarello, che è un po’ quella di Leanza, di spedire a Bruxelles per direttissima Giovanni La Via o un altro candidato.

E adesso non è facile, per i democratici di peso, spacciarsi come sostenitori della Chinnici o di Soru per confermare di avere un pacchetto di voti più o meno consistente.

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E Berretta?

Nel Pd etneo i litigi sono appena iniziati: la crescita numerica dei consensi alza la posta in vista di possibili elezioni politiche. Nei mesi o anni che separeranno lo scrutinio delle europee dal rinnovo del Parlamento, chi è pronto a scommettere che non sarà tutto un susseguirsi di congressi più o meno annullati e commissari di partito più o meno imposti o nominati? E le pressioni per i sottogoverni e le candidature di ogni tipo?

Se a questo si aggiunge la miccia innescata da Crocetta il quadro diventa chiaro. Ed è un quadro a tinte fosche.

 

 

 

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27 Maggio 2014, 07:02

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