Lettera a un giovane medico

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23 Giugno 2011, 19:43

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Un padre aggredisce una dottoressa. Sfoga su di lei l’onda nera della morte di una figlia. Deprechiamo il gesto, pur comprendendolo. Ma, nel suo fondo oscuro, brilla un lumino d’umanità, declinato nel modo sbagliato dal dolore.  Togliamo la follia dell’attimo alla vita spezzata di un uomo. Trasformiamo l’odio in strazio. Ecco, nell’assalto di colui che non aveva più nulla da perdere c’era una richiesta di contatto, oltre il camice. Sarebbe stato troppo chiedere un abbraccio. Eppure, quel padre voleva il corpo a corpo nel senso pieno del termine. Voleva andare addosso a un altro essere umano. Da essere umano.

Noi, che spesso siamo stati critici nei confronti del potere che governa la salute dei cittadini, ci rivolgiamo ai medici siciliani e ci piacerebbe conoscere una risposta. Riuscite ancora a mostrarvi uomini sotto la nomenclatura del camice? E’ una domanda che non presuppone la cattiveria, né la malvagità. Semplicemente, interroga il dottore nella sua frizione più difficile. Nella connessione tra la professionalità e il diritto del paziente di essere amato. Sì. Nella sanità buona che immaginiamo, ogni paziente ha l’inalienabile prerogativa dell’amore. Non è più sufficiente la diagnosi. Non è più urgente soltanto la terapia. Il medico non può farsi carico soltanto del corpo o del sintomo. Deve pensare all’anima che è il riflesso abbacinante della forma fisica. Tutto ciò che la carne soffre, lo spirito lo raddoppia in un universo di tremori e suggestioni. Nessuno ha più bisogno d’amore di un malato. Amore significa calore: svestirsi della freddezza che il camice impone, partecipare, con un  proprio ruolo, al cammino della persona che vacilla, non soltanto occuparsi del dato. Il dolore di per sé non esiste. E’ necessario che scelga un individuo, che sia la pianta rampicante di una identità. Ogni sguardo che si perde nell’indefinito degli ospedali smarrisce, confuso dal numero, la propria singolarità. Diventa un caso clinico. Eppure, dietro quegli occhi in ansia, ci sono donne, cani e figli che aspettano a casa.

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Io ho la fortuna di conoscere medici eccezionali, soprattutto. Talvolta, mi concedono l’onore della partecipazione a qualche momento privato. I dottori, non visti, sono come noi. Ridono, scherzano, si arrabbiano. E hanno paura. Proprio come noi.  Qualcuno serba un salutare appiglio a se stesso, quando chiude la porta di una stanza e si precipita senza paracadute nelle terre selvatiche della Sanità siciliana. Altri indossano un grembiule bianco, la faccia impenetrabile da medico. E non li stani più. Non vogliamo certo che i nostri primari e i loro associati si trasformino in clown da baraccone. Ma preferiremmo che fossero creature. Proprio come noi.
Questa lettera senza destinazione nota è dedicata alla ginecologa aggredita e al padre aggressore. Ed è pure un messaggio in bottiglia per una giovane e brava dottoressa che non sa abdicare alla sua umanità. Così, nel nostro cuore, nutriamo ancora speranza.

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23 Giugno 2011, 19:43

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