22 Marzo 2024, 19:24
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Le discussioni con l’ex Procuratore Pietro Giammanco che “mortificò e ostacolò” il lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e “che non aveva a cuore la loro sicurezza”, ma anche il momento più doloroso, al Palazzo di giustizia, quando davanti al picchetto d’onore per Giovanni Falcone, Borsellino le disse: “Ragazzi, chi vuole continuare continui, ma questa è la fine che faremo…”. E, ancora, le indagini per l’arresto del boss mafioso latitante Matteo Messina Denaro “aiutato durante la sua latitanza anche da ‘talpe’ d Stato”. Un racconto, a tratti pieno di dolore, quello di Teresa Principato, l’ex Procuratore aggiunto di Palermo ed ex componente della Direzione nazionale antimafia, durante la presentazione del suo libro, ‘Siciliana’, in cui ripercorre la sua vita, la sua carriera, da prima donna a entrare in Italia in una Direzione distrettuale antimafia. Principato, rispondendo alle domande della giornalista Adnkronos, Elvira Terranova, ha ricordato il periodo del 1992, poco prima che Cosa nostra uccidesse i due giudici antimafia Falcone e Borsellino, con Francesca Morvillo e gli agenti di scorta.
“L’ex Procuratore di Palermo Pietro Giammanco, a capo della Dda ai tempi delle stragi mafiose del 1992 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, “stava portando la Procura di Palermo verso il baratro, dopo avere mortificato e ostacolato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. “Tra l’altro non aveva a cuore la sicurezza di suoi sostituti, che trattava con la politica delle ”carte a posto”; ecco perché un gruppo di pm decise di scrivergli una lettera per sfiduciarlo e prenderne le distanze”. Eccolo, il racconto di Teresa Principato alla Biblioteca Fardelliana di Trapani. Presente anche l’ex Procuratore aggiunto di Palermo, Dino Petralia.
Dopo la strage di Capaci “in Procura eravamo distrutti, non sapevamo cosa fare, dove andare, se valeva ancora la pena continuare. C’era una sorta di inquietudine che attraversava tutti. Si può capire cosa significa perdere un uomo che era un vero punto di riferimento. E 57 giorni dopo la strage, a questa angoscia si è aggiunta la morte di Paolo Borsellino che ha aumentato la nostra angoscia”, dice. “Per me è stata devastante, ma tutti, io credo, avevamo perso ogni speranza. Lo stesso Antonino Caponnetto lo disse: “E’ tutto finito”. Insomma, fu un momento di vero e proprio sfacelo. Non volevamo continuare a lavorare con Giammanco, una persona che aveva già dimostrato di non lavorare soltanto per lo Stato: non sapevamo se, continuando, avremmo lavorato per lo Stato, considerati i personaggi politici che lui frequentava”, spiega ancora Principato. “Ricordo che Roberto Scarpinato”, il suo ex marito, oggi senatore del M5S, “la sera dopo avere visto il corpo di Paolo Borsellino in via D’Amelio, ridotto ad un tronco, a cui erano rimasti integri solo i baffetti che avevano resistito al fuoco, d’accordo con Alfredo Morvillo (fratello della moglie di Falcone, Francesca Morvillo morta nella strage ndr) scrisse la lettera a Pietro Giammanco in cui esprimeva con chiarezza che non avevamo più fiducia in lui e che lasciavamo il pool antimafia”.
“Giammanco, che non si era mai occupato dei problemi della sicurezza di nessuno di noi, nei confronti di Paolo adottò un’indifferenza scandalosa – prosegue Principato – Non ci fu nessuna strategia per assicurare la sua sicurezza. Non ci fu un momento di vera organizzazione. Tutti noi ci aspettavamo che dopo Giovanni toccasse a Paolo. Lui voleva andare a Caltanissetta per partecipare alle indagini, cosa impossibile. Disse in un convegno pubblico, al quale non si sottrasse, che lui era un magistrato e avrebbe parlato solo con i magistrati ai quali aveva molto da dire, ma non fu mai chiamato dalla Procura di Caltanissetta. Fu citato per il giorno successivo alla sua morte, un po’ troppo tardi…”.
“Ecco perché Giammanco era una persona che non poteva stare in quel posto; lui era un manager che si occupava del funzionamento dell’Ufficio, delle segreterie, del personale. E dei suoi ‘amici'”, dice l’ex Procuratore aggiunto Teresa Principato, che poi racconta un aneddoto: “Subito dopo la morte di Salvo Lima, io stessa vidi entrare nella sua stanza, anzi irrompere nella sua stanza, Mario D’Aquisto, il quale era stato fino a 50 minuti prima con Salvo Lima. E Giammanco, per la solita strategia delle ”carte a posto” poiché non voleva mostrare alcun orientamento politico, mandò a sostituti di ogni corrente, io di Md, Pignatone di Mi ed altri che non ricordo, a fare la perquisizione a casa e nell’ufficio di Lima. Poi ci trovammo in una riunione e all’improvviso Giammanco si alzò di scatto e disse ‘Devo andare’ e noi: ‘Ma stiamo discutendo di cose importanti, non puoi andare via’ e lui rispose: ‘Devo andare al funerale di Lima’. Una cosa che avrebbe dato un’immagine della Procura devastante”.
“Ed ecco perché al funerale di Paolo Borsellino le persone che stavano in prima fila, dopo essersela presa con le autorità, se la presero con Giammanco”, dice. Per Principato, “la gente aveva capito che questi due martiri non erano stati presi nella giusta considerazione da Giammanco che li aveva ostacolati, mortificati, che non gli aveva consentito di lavorare ed espletare un lavoro prezioso, come quello che loro potevano fare”. Così la gente cominciò “a insultarlo e a lanciargli delle monetine, come accadde con Bettino Craxi. E il procuratore fu costretto a rinchiudersi in una macchina e dopo si finse malato perché non poteva più partecipare a nessuna funzione pubblica”. Così, il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redassero la lettera per mettere nero su bianco le criticità che affliggevano la procura retta da Giammanco e le condizioni di “assoluta insicurezza” in cui si svolgeva il loro lavoro. Lo fecero mettendo nero su bianco le proprie dimissioni dall’ufficio, affinché fosse chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l’urgenza delle preoccupazioni”.
“Noi ci andammo di persona, perché non volevamo essere vigliacchi, ma volevamo dirgli ‘Non sei stato ‘capace’. E Giammanco ci disse: “Allora io sono un’altra vittima delle stragi”. E guardando verso me, disse: ‘Teresa, pure tu?…’. Ce ne siamo andati da lì con il cuore stretto. Ma era troppo lo smarrimento per la morte dei nostri due amici, Giovanni e Paolo”, racconta ancora Teresa Principato, che si è occupata per molti anni di inchieste antimafia a Palermo, Trapani, Caltanissetta e, infine, alla Direzione nazionale antimafia. Poi, un altro aneddoto: “Durante il picchetto d’onore per Giovanni Falcone e le altre vittime della strage di Capaci al Palazzo di giustizia, Paolo Borsellino ci disse: ‘Ragazzi, chi vuole continuare continui ma sappiate che è così che finiremo’, indicando le bare. Dopo la morte di Giovanni Falcone prima e di Paolo Borsellino poi, alcuni colleghi se ne andarono dalla Procura, ma io decisi subito di continuare. Non per coraggio, ma per amore e rimpianto di Giovanni., di quello che mi aveva dato, per gratitudine. Io non avrei mai potuto abbandonare. Sarebbe stata una sorta di tradimento”, racconta visibilmente commossa. “Io avevo ancora il sogno di cambiare molte cose. Sono stata una sognatrice, così come lo era stato lui e come era Paolo – dice – Io ritengo che quelle persone che hanno trovato la morte per perseguire e realizzare un ideale fossero tutte sognatori che pensavano di cambiare con il loro esempio questa Sicilia”.
Poi, alcuni aneddoti sull’inchiesta che ha coordinato per la ricerca dell’allora latitante Matteo Messina Denaro, poi arrestato, il 16 gennaio 2023 in una clinica a Palermo e morto pochi mesi dopo. “Potrei raccontare decine di episodi in cui noi stavamo per arrivare a Matteo Messina Denaro: ogni volta, se n’era andato da poco, perché lo avevano avvertito del pericolo. Non posso e non voglio dimenticare che io sono arrivata a fare personalmente una denuncia contro il Procuratore dell’epoca, Francesco Messineo, al Csm, per il suo comportamento”, dice Principato. “Nei giorni in cui noi aspettavamo da un momento all’altro la sua cattura, e non dormivamo, perché si era trovato il collegamento tra Messina Denaro e i palermitani che lui voleva incontrare, questo collegamento – Leo Sutera- fu all’improvviso tranciato dal Procuratore Messineo – spiega – senza una vera spiegazione, ma con comportamenti equivoci”.
“Messineo però non venne trasferito dal Csm perché si disse che anche se ‘censurabile’, tuttavia rientrava nei suoi poteri il fatto di scegliere tra l’arresto di Leo Sutera quale capo di una gang agrigentina, il cui arresto non fu peraltro convalidato, e l’arresto di Matteo Messina Denaro. Certo, è ‘censurabile’ ma aveva il potere di farlo. E’ chiaro che questa cosa ha rotto il ‘gioco’, perché ha demotivato la Polizia giudiziaria che lavorava con me, cioè il Ros. Non posso esprimere il dolore che io ho provato per questa cosa, il dolore per essere stata interrotta non da una talpa, come sempre, ma dal mio Procuratore. Dallo Stato. Altre volte l’arresto di Messina Denaro era stato interrotto da talpe, da carabinieri, da rappresentanti dello Stato”, racconta la ex pm. “Messina Denaro ha avuto la possibilità di usufruire di una coltre di aiuti che all’ultimo momento finivano con il salvarlo – dice Principato – Sono convinta che se non avesse avuto questa gravissima malattia che lo ha fatto tornare, difficilmente sarebbe stato arrestato. Abbiamo fatto non so quanti identikit e poi lo troviamo sorridente a fare selfie con infermieri e donne, la sua vera ‘malattia’”.
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22 Marzo 2024, 19:24