20 Luglio 2014, 16:50
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CATANIA – Qualcuno sostiene che quella di piazza Cutelli sia tra le più belle moschee d’Italia. Difficile fare confronti. Esternamente non c’è nessun minareto o altri corredi presi in prestito dal mondo islamico. Non si percepiscono differenze con il resto del quartiere. In alto c’è però il nome di “Allah, il clemente e il misericordioso”. L’unico dettaglio che ci fa intendere che quello sia un luogo sacro. Dentro è poi tutt’altra storia. La sala del culto è oggettivamente bella. C’è un grande tappeto, mentre gli arredi sono di legno d’Egitto. Si entra scalzi. Non ci sono sedie. Si sta accovacciati. C’è chi legge il Corano, altri pregano. Sulla fronte di alcuni si nota un callo frutto della prostrazione. C’è poi un anziano con la barba lunga e abiti tradizionali. Probabilmente un saggio. Un uomo gli si avvicina con timore. Chiede a bassa voce del Ramadan in corso. Il clima è suggestivo, orientale. Un quadro fuori dallo spazio e dal tempo. “Questo è per noi un momento di grande spiritualità – ci spiega Kheit Abdelhafid, presidente della Comunità islamica di Sicilia – e di ritorno a Dio, l’altissimo, il creatore. Il digiuno è una scuola dove s’impara la pazienza, l’autocontrollo ma anche a sentire l’azione del creatore nei minimi dettagli della vita di ogni giorno”.
Quanto è difficile, per voi, vivere questo periodo in un paese non a maggioranza musulmana?
Non è facile. Nei paesi islamici si vedono i segni di questo periodo. Dal mercato, al panificio, ai negozi. Qui è diverso, sicuramente.
La moschea è accettata nel quartiere o è vissuta come un corpo estraneo?
La città di Catania ha dimostrato un grande spirito di accoglienza e di ospitalità. Ciò ci ha insegnato molto. Noi ci sentiamo nel nostro quartiere. Si pensi che a festeggiare l’inaugurazione, la metà erano catanesi. In altri posti in Italia ci sono, è vero, delle difficoltà. Ma in Sicilia è diverso.
Questa comunità è formata, nella maggior parte dei casi, da immigrati in cerca di prospettive, soprattutto economiche. Come state vivendo la crisi?
La gente la sente. Non è più come una volta, il lavoro è diminuito. Noi però abbiamo la consapevolezza che la nostra comunità è stata sempre composta dalle fasce più deboli della società.
Siete per altro in un quartiere non ricco.
A volte succede che anche gli italiani vengano da noi per usufruire del Banco alimentare. Abbiamo in elenco trecento famiglie catanesi. Ma credo che tutto ciò sia normale. Noi svolgiamo un servizio. Questo è un segno forte dell’inserimento della nostra comunità nel quartiere e nel tessuto socio-culturale della città. Noi ci sentiamo parte integrante di Catania.
In che rapporti siete con le istituzioni cittadine? Cosa può fare questa Amministrazione per venire in incontro alle esigenze della vostra comunità, per aumentare il grado d’integrazione?
Guardi, quello dell’integrazione è un processo lungo. Non è un percorso facile, questo no, e deve essere ben studiato. Ognuno ha il suo punto di vista. Per me, integrazione, vuol dire accettare l’altro, rispettare il prossimo e la sua diversità. Se partiamo dai pregiudizi, la questione si complica. Ma non parlo tanto dell’Italia.
E di chi?
Della Francia, della Germania, che hanno vissuto l’immigrazione ma non hanno saputo gestirla. Lì assistiamo ad una società divisa in quartieri. Qui in Sicilia è diverso. Meglio qui, sicuramente.
L’Islam è portatore di una grande idea della moralità e della famiglia. L’islamico non si realizza se non dentro al contesto familiare. Un modo di pensare quasi in antitesi rispetto alle prospettive del nuovo sentire occidentale. Esperienze come il Gay-pride come le vivete?
La nostra posizione è chiara. La famiglia è il fondamento della società. La sua stabilità è quella della società. Non c’è progresso senza un’idea di famiglia solida, composta da uomo, donna e bambini. Il segreto del successo di qualsiasi civiltà e cultura sta nella pace familiare. Su questo non si discute.
Quindi, sulla richiesta di diritti da parte del mondo omosessuale?
È un fenomeno che deve essere capito, strano per molti aspetti. Siamo però tutti creature di Dio.
Guardiamo alle tragedie nei mari, al fenomeno degli sbarchi. Voi che siete qui, in un certo senso, ce l’avete fatta ad arrivare e avete costruito un percorso. Tanti altri invece sono morti. Che stato d’animo vi procura tutto ciò?
In generale avvertiamo molta indifferenza, non tra noi, ma di tutti. Così ci troviamo sempre a sentire di morti. Quasi come fosse normale.
Che ne pensa di chi dice che Mare Nostrum stia favorendo gli scafisti?
È una soluzione che da sola non basta. Può diminuire il danno, salvare vite, ma risolve poco. Questi soldi che vengono spesi ogni giorno andrebbero stanziati per progetti di sviluppo in questi paesi. E ancora non basterebbe.
Cosa intende?
Bisogna fermare l’instabilità in paesi come la Libia, la Siria. Questi sono dei mali grandissimi.
In Palestina è esploso un nuovo confitto, stavolta però con le truppe di terra pronte a occupare i “territori”. La comunità internazionale è con il fiato sospeso.
Un danno per tutti. Senza dubbio. È stato sbagliato cacciare un popolo dalla sua terra, per farne stanziare un altro.
Potevano vivere entrambi, in pace, nello stesso territorio?
Una cosa difficile. Non si può vivere assieme se l’uno non riconosce l’altro. Il Corano ci insegna una cosa importante, la gente del libro che non ti ha offeso, la devi trattare nel modo migliore, la devi benedire. Allo stesso modo in cui un figlio deve trattare i genitori. Così il musulmano deve agire.
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20 Luglio 2014, 16:50