24 Aprile 2015, 21:13
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CATANIA – L’area di servizio a Gelso Bianco era diventata tra il 1995 e il 1996 una sorta di base operativa tra il capitano Antonio Damiano dei Ros e il colonnello Michele Riccio, che gestiva l’infiltrato Oriente. Il racconto dell’ex comandante della sezione Anticrimine di Caltanissetta, teste nel processo sull’omicidio Ilardo, parte dal giorno prima di quell’incontro a Mezzojuso tra il confidente e il capomafia della cupola palermitana Bernardo Provenzano. Quell’appuntamento con la Primula Rossa che è al centro di un procedimento alla Corte d’Appello di Palermo contro il colonello Mori e Mario Obinu, assolti in primo grado.
“Mori mi chiamò per dirmi che dovevo mettermi a disposizione del Colonnello Riccio che quel giorno mi diede indicazioni per un servizio di monitoraggio al bivio di Mezzojuso da effettuare l’indomani. Dovevo documentare cosa accadeva”. Damiano assicura di non aver avuto informazioni sul tipo di obiettivo da fotografare e su chi fossero i protagonisti dell’attività di osservazione da realizzare. Un fatto che solleva dubbi anche nell’avvocato Stella Rao che durante il controesame si chiede: “Ma è possibile operare un servizio di monitoraggio senza sapere cosa e chi si va ad osservare?”. Damiano è lapidario: “Mi era stato detto di verificare cosa accadeva in quel bivio e così io ho fatto”. La sera prima del servizio il capitano dei Ros invia un gruppo operativo per il sopralluogo e il giorno dopo entra in azione. Sono fotografate due auto, tra cui – ma lo scoprirà in un secondo momento – il fuoristrada su cui viaggiava Gino Ilardo. E sempre in un secondo momento scoprirà che il secondo personaggio era Franco Vaccaro.
Il giorno dopo Damiano che aveva consegnato una copia delle foto scattate a Riccio, accompagna il colonnello del Ros a Palermo al Palazzo di Giustizia. Un passaggio in auto, ma nemmeno in quel viaggio da Catania al capoluogo siciliano sarebbe emerso il perchè di quel servizio di osservazione a Mezzojuso. “Ho avuto conoscenza che c’è una fonte fiduciaria e che si tratta di Gino Ilardo verso la fine del 1995” – precisa il capitano Antonio Damiano.
Arriva il momento in cui si concretizza la collaborazione di Luigi Ilardo con la magistratura. “E’ stato fissato un incontro a Roma con i capi della procura di Palermo e Caltanissetta” – spiega Damiano al Presidente della Corte d’Assise. Giovanni Tinebra, Giancarlo Caselli e Teresa Principato sono i tre magistrati che incontrarono Oriente il 2 maggio 1996. Una riunione di cui nessun verbale parla. Nessun atto. Nessun documento. Solo alcuni appunti della Principato andati persi forse durante un trasloco.
Otto giorni separano Ilardo dalla sua condanna a morte. In quel lasso di tempo Damiano diventa la penna di Michele Riccio che – secondo le disposizioni di Giancarlo Caselli – inizia a registrare i suoi lunghi discorsi con Luigi Ilardo. “Quelle trascrizioni fanno parte del rapporto giudiziario Grande Oriente” – spiega ancora il militare. Ma quel registratore sarà utilizzato da Riccio all’insaputa di Damiano. La conversazione del 10 maggio è incisa sui nastri che – come ha raccontato l’ex colonnello dei Ros – furono consegnati dopo l’omicidio a Ingroia e Di Matteo, pm di Palermo.
“Ho scoperto di essere stato registrato durante il processo a Palermo” – racconta Damiano in aula. Il carabiniere, ammettendo di aver ricordato anche grazie alla lettura della conversazione, ricostruisce i fatti descritti a Riccio quel giorno. “Quando Tinebra si trovava a Roma per incontrare Ilardo era andato in ufficio per salutarlo il comandante dell’Arma La Stella che non trovando il procuratore è andato dall’aggiunto Giordano a cui ha chiesto dove fosse e il magistrato raccontò che era a sentire un nuovo collaboratore. A quel punto il comandante sarebbe tornato in caserma e avrebbe chiesto ad uno dei suoi uomini di cercare informazioni in merito. La mia intenzione – precisa – era solo quella di fare in modo che Riccio sollecitasse i pm a mantenere la questione con una maggiore tenuta”. Insomma con più riservatezza. Ma nessuna prova che potesse esserci una fuga di notizie e, certamente, nel suo ufficio nessuno sapeva l’identità di Ilardo. Su questo punto Damiano è certo quando risponde al sostituto Pasquale Pacifico.
Eppure dalla lettura della trascrizione Damiano parla di paura e di preoccupazione. “La mia paura è che Tinebra lo dica ad esempio a mò di battuta con i suoi Sostituti” dice rivolgendosi a Riccio e, scorrendo il dialogo, si evince che se la notizia sarebbe arrivata alle orecchie sbagliate “dopo due mesi poteva saltare tutto. “E’ questa, che poi è soltanto paura, perché potrebbe essere anche che non c’è niente, però ci sono alcuni segnali che mi fanno capire che invece…” Una frase che fa pensare a sospetti da parte di Damiano, ipotesi, però, assolutamente esclusa dal carabiniere durante l’interrogatorio di oggi. “La preoccupazione è che devono fare le persone serie, devono mostrare professionalità questi signori, e basta, si devono tenere tutto per loro e basta! Abbiamo parlato coi due capi? I due capi hanno assegnato la cosa a...? Allora fin quando non si mettono in chiaro le cose deve rimanere a loro tre, e basta!” Questo un altro passaggio di quanto dice Damiano a Riccio poche ore prima dell’assassinio di Luigi Ilardo.
E c’è un altro elemento su cui l’accusa chiede precisazioni. E’ in merito a quell’atto per la sospensione della pena che viene notificato da due ufficiali del Ros a casa di una parente di Luigi Ilardo. “Di questo atto ne ho parlato con il procuratore di Caltanissetta e il magistrato di sorveglianza”.- racconta Damiano. Un punto che solleva molti interrogativi. Cosa avranno pensato i familiari dei Madonia vedendo arrivare due ufficiali dei Ros per una notifica? E torna alla mente lo ‘spiffero’ di cui parla Giovanni Brusca, e di cui potrà raccontare i dettagli nel corso del suo interrogatorio. Ancora misteri infittiscono questo omicidio rimasto nell’ombra per quasi due decenni.
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24 Aprile 2015, 21:13