19 Maggio 2019, 10:53
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Anni fa mi capitò di difendere un appartenente alle forze dell’ordine, già in pensione all’epoca dei fatti, imputato di resistenza a pubblico ufficiale. Ricordo che viveva con molta sofferenza questa accusa, e non solo perché la riteneva del tutto infondata. Il punto è che la considerava una sorta di marchio infamante impresso su un’intera esistenza tutta dedicata alla legalità ed a servire lo Stato.
In effetti, leggendo le carte processuali, mi resi conto della debolezza del quadro accusatorio e che era possibile puntare, con ragionevoli probabilità di successo, ad una sentenza di piena assoluzione. Cosa che, però, avrebbe significato affrontare il processo, le sue lungaggini, e gli inevitabili costi. Ma non erano questi a preoccuparlo. Ciò che lo tormentava era il processo in sé, l’attesa, la successione delle udienze, i vari rinvii tra un’udienza e l’altra.
Tutto questo sconvolgeva la sua tranquilla esistenza, e le varie, inevitabili tappe processuali, avrebbero, ogni volta, riaperto, e per chissà quanto tempo, una vera e propria ferita, senza che questa potesse cicatrizzarsi. Perché è così. Ci sono persone che vivono il processo come una vera e propria malattia. Per farvela breve, mi resi conto che si trattava di un cliente che non sarebbe stato in grado, emotivamente, di reggere il peso di un processo.
Fu così che nel corso di un ennesimo incontro allo studio, gli proposi l’idea di ricorrere al “patteggiamento”, cosa che gli avrebbe consentito di chiudere la vicenda nel giro di qualche settimana. Gli illustrai (non senza difficoltà) il significato dell’istituto, i suoi effetti (non sto qui a ripeterli perché non mi va di entrare in tecnicismi) e lui mi chiese tempo per potere riflettere. Qualche giorno dopo tornò allo studio. Lo trovai fisicamente diverso, sereno, sorridente. Anche questa volta era in compagnia della moglie. Mi dissero che da quel pomeriggio, da quando cioè avevo prospettato il patteggiamento, avevano ritrovato la serenità familiare ed intravisto la fine del tunnel. Che “applicassero” pure quella pena. Per il resto, ciò che contava era la intima consapevolezza della innocenza e, soprattutto, la ritrovata serenità. Perché in quella famiglia, davvero, non si viveva più.
La vicenda si esaurì davvero nel giro di un mesetto. Concordai col pubblico ministero una pena mite che, naturalmente, venne sospesa (c.d. condizionale). Vi racconto questo perché credo sia giusto sapere che la convinzione, più che radicata nell’opinione pubblica, secondo cui solo chi è colpevole patteggia, è solo una delle possibili chiavi di lettura, se vogliamo, la più frequente, ma non la sola.
Altre volte (tante) questa opzione è dettata da diverse motivazioni, non necessariamente giuridiche o processuali, ma più semplicemente umane. Ci sono soggetti che, pur ritenendosi innocenti, ricorrono al patteggiamento per non dover affrontare i costi di un processo. Spesso sono quelli troppo “ricchi” per accedere al gratuito patrocinio, e troppo “poveri” per pagare l’avvocato. Il mondo della informazione, che ha le sue leggi, i suoi tempi, le sue battute, e che ogni giorno ci consegna fatti di cronaca giudiziaria, queste cose non ve le dice. Forse neppure le sa.
Perché la giustizia è come una pentola. Tutti sanno che è piena. Ma solo il mestolo può sapere cosa c’è davvero dentro.
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19 Maggio 2019, 10:53