03 Giugno 2015, 11:29
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A Salvatore Cuffaro – che un tempo tutti chiamavano Totò – non si perdona l’innocenza. Egli è colpevole di un reato grave per una sentenza passata in giudicato. Eppure, una grande parte dei siciliani lo considera innocente, a dispetto del pronunciamento della Cassazione. E resta da chiedersi perché, nel registrare semplicemente un fatto, senza dare un giudizio, ma nemmeno esibendo studiata cecità davanti all’evidenza che traspare da commenti, letture, social e discorsi da caffè.
Sono tutti mafiosi quei conterranei che si ostinano a chiamare Salvatore “Totò”, alla stregua di un vecchio amico? Certo che no. Tra costoro – facebook è la piazza dell’ultimo dibattito civile che ci rimane – si annoverano persone di specchiata onestà. Sono tutti collusi e conniventi? Nemmeno, perché il recluso non ha più potere, né favori da spartire. Non ha un futuro di influenze da impegnare. Non avrà più clientes da soddisfare. Quando le sbarre della cella si schiuderanno, il domani sarà costellato di privatissimi affetti e nessun incarico pubblico. Perché, dunque?
Nulla a Totò si perdona. Rabbiosi cirenei di certo rito da antimafia posticcia – che non rimette i peccati, che si orna del sangue versato dagli altri, appendendo le teste dei martiri nella sua camera di rappresentanza – gli danno la caccia ovunque. Zittiscono coloro che avanzano dubbi motivati sulla nota condanna, giacché è privilegio democratico discutere di tutto e pensarla secondo coscienza. Non basta che l’ex presidente, assediato nelle giornate ricche dalla bava di moltitudini di incensatori, stia in carcere, dove è giusto che sconti fino all’ultimo giorno della sua pena. Vorrebbero vederlo in ceppi. E se c’è uno spiffero di inchiesta sui colloqui del penitenziario, ecco che piomba dal sinedrio l’anatema delle vesti strappate, in anticipo sul verdetto.
A Totò Cuffaro non si perdona la leggerezza. Quel suo essere diventato umanamente vicino dopo l’ingresso a Rebibbia. C’era una volta un uomo grasso che emanava l’afrore del potere siciliano. Baciava tutti sulle guance, con le sue gote appiccicaticce di sudore. Non scordava nulla, né un nome, né un volto. L’agenda dei possibili elettori era suddivisa in tomi, scolpita nella sua memoria, nelle stanze della mente dove alleanze, inciuci, pesi e contrappesi si incrociavano a rimpiattino, nel gioco dell’oca dei potenti. Quello stesso uomo – una volta prigioniero – è apparso sotto una luce nuova. E’ dimagrito. Ha scritto qualche (bellissimo) libro. Si è presentato come esempio di accettazione serena della legge e del fato. Non ha maledetto. Non ha incolpato. Il suo adipe si è sciolto in una lucente magrezza che l’ha reso monumentale, da frequentatore del retrobottega del politicume locale quale era. Ha confuso carcerieri e accusatori. Perfino coloro che non l’hanno mai amato, né votato, né scelto, ora lo osservano con un sentimento di curiosa fratellanza. Questa coerenza del divenire, in una terra votata all’ipocrisia della costanza d’apparato, no, non trova perdono.
A Totò Cuffaro non si perdona l’umanità che risalta, oggi, nel deserto. Quei baci sulle guance, oltre al sudore, nascondevano una nozione primitiva di interesse. L’elettore baciato e ricevuto dall’eleggendo si sentiva importante, al centro di un disegno benevolo. Era menzogna? Era inganno? Era anche lenimento della sofferenza, ristoro per i passi dei questuanti in fila dietro una porta che non ne rimandava indietro nemmeno uno.
Ovvio, non ci piace. Non può piacerci, perché abbiamo letto ‘Il Gattopardo’ e altre opere, imparando a diffidare dell’oleografia delle anticamere. Ma se pensiamo al dopo, l’epopea trascorsa di Totò da Raffadali si staglia nel ricordo di un piccolo califfato della cordialità.
Appresso, venne Raffaele Lombardo che era composto nell’oleografia contrapposta – a torto o a ragione – del gelo e del distacco. Venne, poi, Saro Crocetta da Gela. E qui bisogna solo fermarsi: osservare un minuto di raccoglimento per la Sicilia e il suo destino. Al posto di Raffaele e di Saro, tanti avrebbero voluto e vorrebbero Totò. Annotata la circostanza, rimane la stessa domanda: sono tutti mafiosi, collusi, conniventi?
A Totò non si perdona di essere diverso, pur continuando a chiamarsi Totò. Non si perdona, al recluso di Rebibbia, la schizofrenia che incarna e che sparpaglia per aria secoli di luoghi comuni, rovesciando la cattedra del risaputo. Condannato per mafia e amato. Senza potere e circondato dall’affetto. Colpevole e innocente. La dieta del vitto carcerario ha reso Salvatore Cuffaro finalmente nudo, finalmente libero. Chi potrà mai rimettere il peccato di questa insostenibile leggerezza?
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03 Giugno 2015, 11:29