18 Luglio 2017, 18:57
3 min di lettura
AGRIGENTO- A distanza di una settimana dall’oltraggio alla memoria di Falcone, alla vigilia del 25/o anniversario della strage in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino, in Sicilia viene ancora una volta sfregiato un simbolo della lotta alla mafia. E’ stata fatta a pezzi la stele che ricorda Rosario Livatino, il giudice ucciso il 21 settembre del 1990 mentre, solo e senza scorta, dal suo paese, Canicattì, andava al palazzo di giustizia di Agrigento. Una settimana fa a trovare la statua decapitata di Giovanni Falcone davanti a una scuola dello Zen fu un dipendente, oggi ad accorgersi del danneggiamento è stato un operaio che passava di là e che ha avvertito i responsabili delle associazioni che, da anni, organizzano eventi per ricordare la figura del giovane magistrato. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni esprime il suo sdegno via twitter: “Onore alla memoria oltraggiata del giudice Livatino. Italia unita alla vigilia dell’anniversario della strage di via D’Amelio”.
Secondo i primi accertamenti – sul posto il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha inviato la polizia Scientifica – qualcuno con un oggetto pesante, una pietra o un martello, ha spaccato in due il cerchio su cui c’era scritto “A Rosario Livatino…” facendo saltare il nome del giudice. La Procura ha aperto un’inchiesta. “E’ un fatto inquietante, non escludiamo la pista mafiosa”, ha detto Patronaggio. “Se qualcuno pensa di intimorirci si sbaglia. L’esempio di Rosario Livatino andrà avanti anche se, evidentemente, disturba qualcuno”, dicono i rappresentanti delle associazioni. La mattina dell’omicidio i sicari lo aspettavano e quando lo videro lo inseguirono, cercarono di speronarlo, lo costrinsero a fermarsi. Un testimone vide con sgomento Livatino tentare una disperata fuga per le campagne, ma il gruppo di fuoco lo raggiunse e lo uccise.
Così morì 20 anni fa il “giudice ragazzino” che svolgeva il suo lavoro con scrupolo ma anche con una visione ideale del proprio ruolo. Cercava di dare “un’anima alla legge”, aveva spiegato lui stesso durante un incontro pubblico, qualche giorno prima di morire. Livatino aveva 36 anni ma già si era occupato delle prime avvisaglie di una tangentopoli siciliana e di vicende di mafia che avevano rivelato l’esistenza della “stidda”, un’organizzazione in ascesa che contendeva a Cosa nostra il controllo delle nuove frontiere criminali: appalti, traffico di droga, riciclaggio. Due dei quattro sicari, Domenico Pace e Paolo Amico, furono arrestati subito in Germania dove avevano cercato rifugio. Vennero individuati sulla base delle indicazioni di un agente di commercio, Pietro Ivano Nava, che al momento dell’agguato stava viaggiando sulla Agrigento-Canicattì. Scoperti anche gli altri responsabili e i mandanti per i quali sono stati celebrati tre distinti processi. Il progetto criminale era stato ideato da Giovanni Avarello, esponente di una cosca emergente a Canicattì contrapposta a un vecchio clan capeggiato da Giuseppe Di Caro e legato a Cosa nostra. Con l’uccisione del “giudice ragazzino” la “stidda” avrebbe voluto dare una dimostrazione di forza a Cosa nostra. Pace e Amato sono stati condannati all’ergastolo con gli altri due componenti del gruppo di fuoco, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro. Nell’altro filone processuale alla stessa pena sono stati condannati come mandanti Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti. Quest’ultimo, arrestato ad Acapulco dove aveva seguito la figlia in viaggio di nozze: avrebbe messo a disposizione del commando una abitazione e mantenuto i contatti con alcuni latitanti all’estero. A pene minori sono stati condannati i pentiti Giovanni Calafato e Giuseppe Croce Benvenuto. Per Livatino la Chiesa ha avviato un processo di canonizzazione. (ANSA).
Pubblicato il
18 Luglio 2017, 18:57