24 Maggio 2012, 11:50
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La cucina del Grand Hotel Villa Igiea di Palermo, uno dei gioielli dell’hotellerie siciliana, d’ora in poi potrà contare sul suo tocco stellato. Così, abbiamo deciso di scambiare quattro chiacchiere con Massimo Mantarro, al timone dell’elegantissimo Principe Cerami del San Domenico di Taormina, due stelle Michelin di venti coperti in tutto, Executive Chef di grande fama e una sorta di sovrintendente-consulente gastronomico delle cucine degli alberghi del Gruppo Acqua Marcia, cui fa capo, per l’appunto, anche Villa Igiea. L’abbiamo incontrato “a casa sua”, in un prezioso salotto damascato di una sala con vista incantevole sul golfo di Taormina, il Teatro Greco e l’Etna innevata, avendo attraversato gli austeri raffinati saloni di quel complesso più unico che raro che il Principe Cerami convertì, nel 1866, da monastero quattrocentesco in palace dal lusso inarrivabile.
Che cosa accade a Villa Igiea?
“È molto semplice, e per comprenderlo si deve partire da Palermo, una città meravigliosa per storia, cultura e opere d’arte. Villa Igiea, durante l’epopea dei Florio, è stata al centro dell’Europa, qui venivano teste coronate e personaggi da tutto il mondo, era il cuore della Belle Époque. Noi, che crediamo tanto nella città, ripartiremo dalla sua famosa cucina e dalla grande tradizione culinaria siciliana, e ne esalteremo di più e meglio che in passato il carattere e la straordinaria personalità”.
Una banale domanda personale, come mai ha fatto il cuoco?
“A casa mia si mangiava molto bene, mio padre era parecchio esigente e mia madre una cuoca con i fiocchi. Dopo la terza media è stato naturale frequentare l’Istituto Alberghiero, quello di Giarre. Poi è stato un crescendo di esperienze formative, dall’Etoile di Venezia all’Ecole Lenôtre di Parigi. Fondamentali, dopo, i periodi trascorsi nelle cucine di vari ristoranti come il Savini di Milano, il Cambio di Torino, lo stesso San Domenico, dal 1991, e, infine, il campano Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi, Il Mulinazzo di Villafrati, oggi a Mosca, e il Duomo di Ragusa, tutti e tre due stelle Michelin”.
Massimo Mantarro ha un piatto della memoria?
“I maccheroni al ferretto, quelli lavorati a mano, piatto semplicissimo con ragù di maiale, vitello o coniglio, dipendeva dalla stagione, che mio padre adorava mangiare immancabilmente per il pranzo della domenica. Era un rito familiare indimenticabile: alle 12 tutti a tavola, composti e ordinati, non si poteva sfuggirvi, sennò erano tragedie”.
Qualcosa per cui non va pazzo?
“Niente in particolare; forse, a pensarci bene, non ho un grande trasporto per i funghi”.
Un piatto, fra quelli più recenti, che ama più degli altri?
“Il ‘calamaro come se fosse un risotto’, in cui il calamaro viene ridotto a chicchi, mantecato con una crema di riso e del pesto al basilico. Divertente, innovativo, di gran gusto. Francamente lo adoro”.
Il piatto di maggiore impegno nella messa a punto?
“Senza dubbio ‘trasparenza di scampi’, tre mesi d’inferno, un lavoro improbo. Veniva sempre opaco, e io lo volevo trasparente. Mesi di prove, con infinite soluzioni di acqua e sale, basse temperature e altri marchingegni. Alla fine lo stupore di un piatto in cui i crostacei non si notano subito (attiro volutamente l’attenzione su altri dettagli colorati), trasparenti al massimo, antipasto apprezzatissimo dai nostri ospiti”.
Riguardo agli ospiti, si ricorda qualche aneddoto particolare?
“Abbiamo avuto per 4 giorni una coppia di simpatici americani, parecchio abbienti, che bevevano solo Sassicaia a tutte le ore, pure in camera. Ne abbiamo finito le scorte. Sono venuti ogni sera al Principe Cerami e di fronte al ‘calamaro come un risotto’ si sono commossi e mi hanno chiesto di andare una volta al mese a New York, a casa loro, per prepararglielo. A fronte della copertura delle spese e dietro un compenso tanto generoso da essere imbarazzante, a cui ho dovuto dire di no. Comunque è stata una bella soddisfazione”.
Qualche personaggio molto importante, di livello internazionale?
“La politica aziendale è, su questi argomenti, per la riservatezza. Però forse si può dire dell’erede al trono di Svezia, la principessa Vittoria, nostra ospite un paio di anni addietro. Ha degustato un menu ‘tutto pesce’, molto leggero, con grande piacere. Che classe e che eleganza, ce la ricordiamo ancora…”.
E dei nostri, chi possiamo citare?
“Renato Brunetta, da ministro, un vero personaggio. Venne a fine settembre, quando il tempo era incerto, e avrebbe voluto cenare in terrazza, godendosi in santa pace la vista del golfo. Purtroppo piovigginava e fummo costretti a preparare dentro. Si rabbuiò di brutto ed era stizzito assai perché ci teneva tanto, ma mangiò con appetito non lasciando niente”.
Se dovesse dare un consiglio a un giovane cuoco alle prime armi?
“Gli direi di essere umile e se stesso, e di restarlo per sempre, perché in cucina non si è mai arrivati. Di fare esperienze fuori casa, brevi e lunghe, in Italia e all’estero. Imparando bene la lingua di scambio del mondo, l’inglese, per potersi confrontare con colleghi e clientela. È fondamentale”.
Come è organizzato il Principe Cerami e su quali risorse può contare?
“Siamo in 6, io, tre cuochi e due pasticceri. Con una cucina dedicata, solo per noi. Poi c’è lo staff di sala, altre 5 persone. Tutti per 7 tavoli, una ventina di ospiti, estate e inverno. Fine”.
E i clienti sono solo ospiti dell’hotel?
“No, siamo ormai al 70% di non residenti, vengono appositamente da fuori per la cucina del Principe Cerami. Un motivo di vanto e di soddisfazione per me e per i colleghi e di orgoglio per la proprietà”.
Il suo ristorante, con le due stelle Michelin, si colloca fra i grandi locali italiani ed europei. Se dovesse dare una definizione della sua cucina?
“È una linea gastronomica all’insegna della semplicità. Io utilizzo materia prima di assoluta eccellenza, che desidero trattare con leggerezza per restituirne intatti sapori e profumi. Sarebbe un peccato avere grandi prodotti come quelli siciliani e andarli a stravolgere”.
La tecnica, l’alta tecnica che ruolo assume?
“Ancillare, di servizio, mi serve solo per esaltare i singoli ingredienti in modo diverso e accattivante, magari più attuale, senza stravolgimenti. Il cromatismo assume pari valore rispetto alla sostanza del piatto. I colori perfetti e veri di verdure, legumi, carni, pesci dialogano con il gusto autentico di ognuno di questi. Ciò che appare deve essere e viceversa”.
La sua ascesa e fama fanno parte di un contesto di cucina siciliana in grandissimo spolvero, un sistema che sembra molto virtuoso e in ascesa. E così o ci sono ombre sullo sfondo?
“Al contrario, a mio avviso siamo solo agli inizi. Esistono realtà gastronomiche importanti ancora non del tutto conosciute che stanno facendo la loro strada, i cui risultati si vedranno fra breve. Le nostre stagioni lunghe, carni, pesci, verdure, tante eccellenze che gli altri si sognano, ci danno una marcia in più. Vedo rosa nel futuro della cucina siciliana, non ho dubbi di sorta”.
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