Lo strano caso di Attilio Manca

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21 Agosto 2013, 16:10

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BARCELLONA POZZO DI GOTTO (MESSINA)- La madre governa la rotta dello strazio col timone di un quieto coraggio. Tira fuori dai cassetti una marea di lettere d’affetto filiale e di ricordi. Soffia sul fuoco dolce della memoria che divampa e ricade, ridotto in cenere. Il padre era un professore di Lettere. Accarezza un cucciolo di minuscola taglia. Forse per antica deformazione professionale, l’ha battezzato Argo. Oppure c’è dell’altro. Il vecchio cane Argo, nell’Odissea, si alza con estremo sforzo sulle zampe per salutare Ulisse tornato a Itaca, dopo una vita d’attesa e di peripezie. Vede il suo padrone, abbaia e muore felice. Argo è la mitologia di una speranza assurda. È il santo protettore dei ricongiungimenti impossibili. Il punto finale di questa trinità amorevole sarebbe il figlio Attilio. Ma Attilio Manca, di professione urologo, è come il suo cognome. Non c’è. Si è suicidato, secondo la storia ufficialmente narrata fin qui. I suoi genitori, e non solo loro, la pensano diversamente.

Pensano che sia stato ucciso per essersi imbattuto, suo malgrado, nell’ombra di Binu e nei killer di Cosa nostra. Le parole della madre, Angela, sono abbacinanti: “Lo Stato non vuole occuparsi di questo delitto, forse perché c’è di mezzo Provenzano, non c’è la volontà di scoprire la verità”. È il filo da tirare. La Procura di Viterbo ha riaperto le indagini. Uno scrittore della Barcellona spagnola è volato fino a Barcellona Pozzo di Gotto, la cittadina dei Manca. Joan Queralt ha scritto: “El enigma siciliano de Attilio Manca, verdad y justicia en la isla de Cosa nostra”. Presto sarà tradotto in italiano. Dopo l’oblio, grazie al libro, mille piccole luci si sono accese. Le penne nobili si mobilitano.

Alfio Caruso sulla Stampa: “Il cadavere giaceva riverso sul letto, seminudo, dentro una pozza di sangue, il setto nasale deviato, il corpo costellato di macchie ematiche, sul braccio sinistro i segni inequivocabili di due iniezioni. Era stata una richiesta dell’ospedale Belcolle di Viterbo a condurre la polizia, la mattina del 12 febbraio 2004, in quell’appartamento periferico, dove da alcuni anni abitava l’urologo trentaquattrenne Attilio Manca. Gli accertamenti della scientifica conclusero che si trattava di suicidio attraverso un cocktail micidiale di eroina e tranquillanti. Eppure niente nell’esistenza di Manca faceva prevedere l’intenzione di togliersi la vita: aveva già preso accordi per alcuni mesi di volontariato in Bolivia con ‘Medici senza frontiere’, cui avrebbe seguito uno stage d’aggiornamento presso un ospedale di Cleveland. Non sorprende, dunque, che la procura laziale abbia riaperto per la terza volta il caso ipotizzando che si possa trattare di un omicidio di mafia sul cui sfondo campeggia, addirittura, Bernardo Provenzano”.

Ci sono coincidenze che rendono l’ipotesi verosimile. Il dottor Attilio Manca era un fuoriclasse della sua professione. Si era formato a Parigi. Operava i tumori alla prostata con una tecnica laparoscopica di recentissima generazione. L’attenzione degli inquirenti si è appuntata su un viaggio in Costa Azzurra, “per un consulto circa un paziente”, secondo la spiegazione fornita direttamente dal dottore a papà Gino. Nel 2003, all’inizio di novembre, si registra, secondo i familiari, un passaggio nei paraggi di Marsiglia. Da quelle parti c’era anche un certo signor Gaspare Troia, reduce da una delicata operazione alla prostata. Troia, l’altro cognome di Provenzano. Il mistero di Manca si sovrappone al mistero di Binu e della famosa degenza francese protetta da un falso nome. Uno, luminare di interventi alla prostata. L’altro ricoverato per un tumore alla prostata, infine operato. Stessi tempi. Stesso luogo. E Binu era stato latitante nel Messinese. Qui avrebbe potuto contattare e conoscere l’urologo, un medico da cui farsi assistere, un testimone da ridurre al silenzio eterno.

La meccanica del suicidio non convince. Attilio Manca era mancino, ma avrebbe utilizzato il braccio destro per iniettarsi una sostanza letale in quello sinistro. “Per non parlare degli evidenti segni di colluttazione”, insiste la madre. Intorno, una serie di strani personaggi e di episodi singolari. C’è Ugo Manca, un cugino condannato in primo grado per traffico di droga. Una sua impronta è stata ritrovata nella casa di Viterbo, teatro del “suicidio”. C’è il presunto viaggio – chissà se mai compiuto davvero – di un pregiudicato, Angelo Porcino, che avrebbe tentato di conferire con lo specialista. “Cosa aveva da dirgli?”, si interroga Angela, la professoressa di matematica che non riesce a far quadrare i conti logici – non quelli emotivi, perché è impossibile – della fine del suo primogenito.

I dubbi che hanno portato all’ennesima riapertura del caso sono stati sollevati dall’avvocato Fabio Repici. È lo stesso legale che segue la famiglia di Graziella Campagna, la stiratrice di Saponara assassinata per avere trovato in lavanderia, nella tasca di un indumento, un “pizzino” compromettente che conduceva a un noto latitante mafioso. Attilio e Graziella e un mostro in incognito di cui probabilmente non conoscevano l’identità. Un’entità che – in anni e contesti diversi – avrebbe divorato e sacrificato entrambi sull’altare di una “colpa” involontaria.

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La casa dei Manca è dietro un lungo viale alberato a Barcellona. Il cane Argo corre nel giardinetto. L’ingresso è caldo e accogliente. Ci sono molti libri. E tante foto di Attilio. Angela Manca parla piano, però con decisione. Non vuole che si perda neanche una goccia delle sue denunce. “Sì, dobbiamo ringraziare Fabio Repici – spiega la signora – che è un avvocato valoroso. Nessuno, a parte lui, ha avuto rispetto per noi familiari, nessuno ci ha sostenuto. I politici sono stati indifferenti. Alcuni parenti ci hanno abbandonati, come per punirci della nostra legittima curiosità. Sa come si dice in Sicilia, no? Il morto è morto, bisogna pensare al vivo. Intanto, gli assassini sono in giro”. Le istantanee della vittima punteggiano gli scaffali del salotto. Altre riposano nei cassetti. Il tocco della mano della madre le risveglia, le toglie dalla penombra, le consegna alla benedizione della luce.

Attilio con la divisa da militare. Attilio che sorride. Che ha una patina di nostalgia tra occhi e labbra. Sdraiato, seduto, con gli amici, con le donne. In perenne compagnia di un alone di solitudine. “Mio figlio aveva un fondo di malinconia – racconta la madre -. Scriveva lettere e poesie. Era uno splendido campione del suo lavoro. Ha visitato un uomo politico oggi alla ribalta. Le rivelo chi è. Non lo scriva per discrezione. Eppure, nel momento della difficoltà, è rimasto solo”. Gino e Argo ascoltano. Angela continua: “Qualcuno era sicuramente con lui, non è partito da solo per la Francia. Negli ultimi tempi Attilio era come inzuppato d’ansia. Aveva qualcosa. Secondo i colleghi non si comportava più nello stesso modo tranquillo di sempre. Forse ha visitato e riconosciuto Provenzano, forse hanno capito che aveva capito”.

È l’enigma che propone una raggiera di domande. Quando sarebbe scattato un eventuale riconoscimento? Quando il primo contatto? Quando la piena consapevolezza del pericolo? La verdad si nasconde. Sfugge tra le dita al padre e alla madre. È uno scherzo crudele, una moscacieca al buio. Cogli frammenti, mai l’insieme. I giudici di Viterbo, dunque, hanno riaperto il caso. Gino e Angela hanno fiducia nella giustizia che verrà. Poca in quella che è già stata: “Qualcuno ha depistato. Non ci hanno nemmeno permesso di vedere il corpo di nostro figlio. Hanno detto che si era sfigurato cadendo, che non era il caso di soffrire, che dovevamo ricordarlo così come era”.

“Attilio – incalza la madre – mi ha telefonato prima di morire, l’11 febbraio. Voleva raccomandarmi di sistemare la sua vecchia moto in garage. L’abbiamo portata dal meccanico, non aveva problemi. Magari era un modo per metterci in guardia”. Domande. Poi, le fotografie, con le lettere. Il filo tenue della speranza appeso alle indagini. Angela sfoglia gli album dei ricordi: “Ho tanta rabbia dentro”.

Mentre la moglie racconta, papà Gino smozzica appena qualche parola. Quando lei si chiude in un silenzio sfinito, comincia lui. Accarezza il cane: “Mio figlio era un uomo un po’ solare e un po’ malinconico. Gli piaceva la vita, non si è suicidato. Gli piaceva fotografare. Guardi”. Oltre gli scatti per incorniciare l’assenza, c’è un cassetto che custodisce le immagini nate dall’obiettivo del dottore. Paesaggi, soprattutto. “Guardi, era una delle sue preferite”, insiste il padre. Nell’orizzonte del rettangolo fotografico, c’è una distesa di neve a perdita d’occhio, senza traccia umana. Innocenza e solitudine. Questo c’era nel cuore di Attilio Manca. Questo c’era nel cuore di Ulisse. Argo abbaia.

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21 Agosto 2013, 16:10

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