15 Maggio 2010, 15:41
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Al paese non fanno male le fiction sulla mafia, ma le fiction inventate dagli indagati di mafia. A leggere la lunga, accorata intervista rilasciata ieri dal governatore siciliano Raffaele Lombardo a Repubblica apprendiamo che le tremila pagine di atti istruttori, testimonianze e intercettazioni che lo accusano sono solo un attacco politico che taluni magistrati della Procura di Catania, sotto istigazione diretta di Silvio Berlusconi, stanno lanciando contro Lombardo per costringerlo alle dimissioni. Apprendiamo poi che questo attacco mediatico e giudiziario è solo la “fase due” di una trama più avvincente che prevede anche una “fase tre”: l’eliminazione fisica del governatore (ad opera ci chi: Berlusconi? La procura? I comunisti? La Spectre?). Apprendiamo che il pestaggio subito e mai denunziato dal fratello Angelo, parlamentare della Repubblica, in realtà era solo una crisi ipertensiva. Infine leggiamo che il governo di Raffaele Lombardo ha assestato “un colpo durissimo al sistema affaristico mafioso” in Sicilia. Parola di Raffaele Lombardo medesimo. E guai a dubitarne.
Sul palcoscenico siciliano si recita ogni giorno a soggetto. C’è un Procuratore della Repubblica che invece di spiegare a sei milioni di siciliani se il loro presidente sia o meno amico dei mafiosi, continua da tre mesi a trastullarsi con secche smentite. Non smentisce le accuse, non smentisce i fatti, non smentisce le ipotesi di reato: smentisce i giornalisti che di questo parlano sui loro giornali. In questo, solo in questo, Lombardo ha ragione: la sua condizione di presunto imputato, presunto colluso, presunto arrestato è insostenibile, per lui e per l’istituzione che rappresenta. La procura ha a sua disposizione i fatti e gli atti: che decida cosa dire e cosa fare, senza lasciare che questa indagine continui a nutrirsi di attese, di presunzioni, di funambolismi.
Se si ritiene davvero che il governatore sia stato vicino a Cosa Nostra, lo si dica subito affinché i siciliani possano decidere del loro destino tornando immediatamente al voto. Se così non è, si restituisca l’onore al governo regionale. Purché non si continui a smentire l’aria fritta, come fa il capo della procura di Catania D’Agata da troppi mesi. Se poi da parte sua non ci fossero condizioni di serenità e di imparzialità di giudizio, lo dica e si faccia da parte (come fece già una volta al momento di controfirmare, da procuratore aggiunto, l’ordine di arresto per mafia nei confronti dei figli del cavaliere Costanzo: D’Agata non firmò e lasciò la rogna ai suoi colleghi).
Per farla breve, la verità su questa vicenda non può essere regalata al gusto per le fiction da guerre stellari del governatore Lombardo né ai religiosissimi pudori della pubblica accusa e nemmeno ai silenzi con cui il Partito Democratico segue la vicenda come se fosse capitato lì per caso. Dimenticando che se Lombardo è ancora in carica, dipende dal voto dei deputati regionali del PD che gli hanno approvato il bilancio due settimane fa.
Ps Lumia: c’è un ultimo imperdibile passaggio nell’intervista di Lombardo: pronto a dimettersi, dice lui, se si dimostrerà che ha consapevolmente favorito la mafia. Stesso concettino ripreso anche dal suo sponsor Beppe Lumia su queste stesse pagine: «Se Lombardo ha avuto rapporti consapevoli con Cosa Nostra si deve dimettere». Cosa vuol dire, di grazia, rapporti consapevoli? Sono rapporti non protetti? O vuol dire che ci sono pure quelli che Cosa Nostra la aiutano inconsapevolmente? E come fa un leader politico a rendere un servigio a Cosa Nostra «inconsapevolmente»? Perché offuscato dall’alcol? Perché convinto di aver di fronte ambasciatori dell’Unicef e non capibastone mafiosi? Succedeva a Catania qualche anno fa, quando Nitto Santapaola era per tanti un onesto commerciante di angurie e non un capocosca: finché interrogarono un deputato che era stato fotografato abbracciato a don Nitto, e l’infelice si difese dicendo, appunto, che non era consapevole: «eccellenza – spiegò in tribunale – lei non ci crederà, ma il signor Santapaola mi pareva una così brava persona…».
Se le amicizie torbide, gli affari loschi, le frequentazioni pericolose in politica dovessero pagarsi solo quando vi sia consapevolezza, perché prendersela con Silvio Berlusconi che s’era messo in casa un capomafia? Per lui, Vincenzo Mangano era solo uno stalliere, no?
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15 Maggio 2010, 15:41