27 Aprile 2017, 06:00
6 min di lettura
PALERMO – Le riflessioni a microfono aperto di Paolo Inglese seguono una traiettoria che le conduce spesso, senza casualità alcuna, alle parole “orgoglio e responsabilità”. Che fanno a pugni con quella cultura del piagnisteo che Livesicilia prova a scandagliare per verificarne la diffusione. Inglese è ordinario di “Arboricoltura generale e coltivazioni arboree”, dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e forestali dell’Università di Palermo. Da qualche mese il rettore Fabrizio Micari lo ha scelto per guidare la direzione del Centro Servizi Sistema Museale. Sei musei, 11 collezioni e 5 siti di interesse storico-architettonico: l’Ateneo palermitano è anche questo. Una chiacchierata con lui non può che partire da un’immagine dei 40 mila studenti palermitani.
Quale?
“Il Graduation day organizzato in città, fra la gente (i neolaureati hanno sfilato in corteo – tocco in testa e pergamena in mano, lungo le vie della Palermo arabo-normanna e, recentemente, in Piazza Bellini) per celebrare la laurea. È un modo per rendere la città responsabile dei ragazzi e viceversa. Gli studenti devono essere orgogliosi di ‘Palermo città universitaria’, come la città deve esserlo di loro, è il senso di appartenenza che intendiamo sottolineare. Il rettore e tutti noi stiamo lavorando per questo. Basta piagnisteo. Mio nonno, Giuseppe Alessi, primo presidente della Regione siciliana, diceva che l’eccesso di understatement è una dissimulazione del senso di responsabilità. I talenti non vanno sotterrati”.
E neppure lasciati partire per trovare un lavoro lontano dalla Sicilia. O no?
“Uno dei miei figli fa il dottorato di ricerca in Olanda e l’altro studia alla S. Anna di Pisa. Lei starà pensando che detto da un professore universitario palermitano non è il massimo dell’incoraggiamento. Le confesso che l’altra mattina ho accompagnato mio figlio in aeroporto. C’era la fila di ragazzi che tornavano nelle città dove sono andati a studiare e lavorare. Ecco la differenza. Se uno va a studiare fuori non bisogna stracciarsi le vesti. Può essere fisiologico. Se sei nato a New York magari vai a studiare Boston. Se sei di Milano puoi andare a Parma. È la normale interazione nel tessuto culturale di un Paese. Studiare fuori ci sta, spero in forma minima (sorride). È l’abbandono per necessità che è una tragedia. Manca lo scenario del dopo. Manca il lavoro. Chi va a fare gli studi magistrali fuori lo fa perché ha più possibilità di trovare lavoro: questo sì che è un dramma. La nostra università è ottima e da un’ottima preparazione, è il dopo che preoccupa”.
“Cu nesci arrinesci”, il detto popolare conferma che chi studia in Sicilia ottiene poi ottimi risultati lavorativi. Altrove, però.
“Perché sono tutti molto preparati. Non può essere un caso. Le imprese devono avere fiducia nei nostri ragazzi. Io ho 56 anni, sono professore ordinario, potrei occuparmi delle lezioni e avere lo stesso stipendio, ma abbiamo tutti il dovere di pensare ai nostri 40 mila studenti”.
Come?
“Il piagnisteo non ci appartiene. Ciascuno di noi faccia la propria parte. Non possiamo solo lamentarci dei ritardi, delle imprese, della crisi. Le faccio un esempio che può sembrare banale, ma non lo è. Ieri, in una delle manifestazioni organizzate allo Steri, il rettore Micari e il suo predecessore hanno fatto la fila e pagato il biglietto. Nella mentalità siciliana, retaggio del passato, si associa la potenza alla disponibilità gratuita di luoghi ed eventi. È un’eredità del ‘700, quando i ricchi non pagavano le tasse che pesavano solo sui poveri. Ecco, fare la fila e pagare è la chiave per la normalità. Non si deve cercare il privilegio. Abbiamo tutti diritto ad avere diritti, avendo dei doveri.
Potente ai giorni d’oggi vuol dire politico. Troppo populista come analogia?
“Non voglio fare politica, ma ci vuole senso di responsabilità. Non basta declamare che la Sicilia ha un patrimonio culturale enorme. Serve una politica del merito e della responsabilità della bellezza. Non serve altro”.
Come si diventa responsabili della bellezza e come, mi consenta, si monetizza l’operazione?
“Le faccio un esempio. Tutti fanno vini eccezionali, ognuno dice che il proprio sia migliore degli altri. La verità è che nessuno può farlo a 200 metri dai templi come Segesta o Selinunte o la Valle dei Templi. A Selinunte opera Settesoli, la più grande cantina d’Europa che adotta il più grande sito archeologico. Si è capito che custodire la bellezza di quei luoghi, farsene carico con responsabilità, significa investire sull’unicità del proprio territorio”.
Insomma gli altri nel bicchiere ci mettono solo il vino, noi molto altro.
“La bellezza del nostro territorio fa la ricchezza dei nostri prodotti. Poi, serve tutto il resto”.
Tipo?
“Non ha senso avere delle case meravigliose, quando l’attenzione per i servizi è minima. Ci sono mille aspetti di economia e finanza, di cui so poco e che non sono il mio campo, ma serve responsabilità collettiva. La bellezza è di tutti. Qui spesso pare che appartenga a nessuno. Il sistema museale è un esempio di come si potrebbe invertire la rotta”.
Un agronomo che si occupa di musei. I maligni sono sempre dietro la porta
“Il mio talento, se ne dovessi avere uno, deve essere valorizzare i talenti. Poi, è chiaro che ci sono gli esperti nei vari musei e tutti con competenze specifiche”.
A proposito di vini e prodotti agricoli. Il successo vero si avrà quando non sarà riservato alle eccellenze di nicchia
“Abbiamo sempre avuto vocazione all’export sin dai tempi della Magna Grecia. Prima esportavamo vino sfuso, ora grandi marchi e i produttori ci mettono la faccia. I piccoli hanno una possibilità in più se stanno insieme. Il piccolo che va in giro da solo per il mondo fa la propria ricchezza, ma non fa sistema. Le eccellenze alimentari sono un altro motivo d’orgoglio, ma la gente non ha fiducia nell’associazionismo. Bisogna riuscire a trovare un equilibrio fra la capacità di esportare e la filiera corta. Il brand Sicilia funziona. Gli aranci ci sono anche in Marocco, ma i frutti che crescono sotto l’Etna hanno un sapore diverso”.
Nel brand Sicilia dobbiamo inserire anche la nostra centralità nel Mediterraneo. Impossibile non parlare di immigrazione
“Immigrazione e integrazione, aggiungerei nel nostro caso. La stessa dieta è un modello di integrazione. Mandarino, arance, nespole, ciliegie ora sono prodotti tipici quando giunsero dalle nostre parti rappresentarono una rivoluzione. Noi abbiamo accolto piante migranti e popoli migrati. Oggi nei mercati storici si vendono la cassava, il tubero d’Africa, e il riso Basmati. Su questa varietà dobbiamo investire. Noi lo stiamo facendo. L’8 maggio a Palazzo Riso, ad esempio, c’è un incontro suoi nuovi cibi e gli insetti a tavola. Si parla di sperimentazioni, non di assaggi naturalmente, sulle farine di grilli e larve. Si valuta scientificamente l’accettabilità di questi alimenti. Pazzia? Be, sì. Il nostro mestiere è anche questo. Altrimenti non saremmo un’Università. Difendiamo la tradizione con i musei e costruiamo le nuove tradizioni con la ricerca. È la nostra missione. I numeri sui corsi di laurea e gli iscritti ci danno ragione. Università, impresa e istituzioni: devono lavorare insieme. Noi lo facciamo ogni giorno e crediamo nella reciproca responsabilità di Università, istituzioni e imprese. A vantaggio dei giovani, del futuro”.
Chi è che ha fatto meno? O, per essere politically correct, chi può fare di più?
“Troppo facile. Ognuno deve fare il proprio. Se la politica vuole, ed è giusto che lo abbia, un primato, deve anche avere maggiori responsabilità”.
Pubblicato il
27 Aprile 2017, 06:00